Grida di allarme dei presidenti dell’Associazione vivaisti italiani Vannino Vannucci e di Assofloro Lombardia Nada Forbici. Più cauto il segretario di Anve Sciutti, che intravede nel regolamento rischi e opportunità. Replica il direttore del Servizio fitosanitario Faraglia: la discussione su come renderlo operativo è aperta e l’obiettivo è consentire alle aziende di applicarlo nel rispetto del loro sistema produttivo.
I punti più criticati dalle associazioni vivaistiche italiane del Regolamento Ue 2016/2031, contenente le misure per la protezione delle piante da organismi nocivi, sono l’articolo 69 sulla tracciabilità e l’articolo 70 sugli spostamenti di piante, prodotti vegetali e altri oggetti all'interno e tra i siti degli operatori professionali, a cominciare dai produttori di piante. Il primo, come precisato ieri durante la giornata di studio dell’Accademia dei Georgofili sul nuovo regime fitosanitario europeo (vedi nostro articolo) da Emilio Resta, agronomo collaboratore dell’Associazione vivaisti italiani, impone agli operatori professionali a cui sono state fornite piante di registrare i dati che consentono loro di identificare per ogni unità di vendita di pianta (ma anche prodotto vegetale o altro oggetto) gli operatori professionali che l'hanno fornita; e agli operatori che forniscono piante ad altri di registrare i dati che consentono loro di identificare, per ogni unità di vendita, gli operatori professionali ai quali è stata fornita. L’articolo 70 invece obbliga i soggetti della filiera delle piante ad istituire sistemi o procedure di tracciabilità tali da consentire l'identificazione degli spostamenti di tali piante all'interno e tra i loro siti. Ma, a prescindere dall’analisi dei singoli articoli, è tutto l’impianto normativo che non convince le associazioni florovivaistiche, in particolare quelle che più hanno alzato la voce ieri (in rappresentanza anche di altri soggetti associativi del settore florovivaistico): Associazione vivaisti italiani e Assofloro Lombardia.
«Quello che ci preoccupa maggiormente – ha spiegato al termine dell’incontro Emilio Resta - è la stesura degli allegati, che porteranno le note operative del regolamento. E in questo caso vorremmo essere presenti come operatori e portatori di interesse perché le cose non ci piovano addosso come è accaduto un pochino con il regolamento in generale. Quindi ci sono delle preoccupazioni legate alla strategia di controllo delle merci che se diventa molto formale è un problema per le aziende. Siccome non è molto chiara la normativa in certi punti, abbiamo puntato su quegli articoli che secondo noi avrebbero necessità di essere un po’ riguardati. Ora il dott. Faraglia è stato abbastanza tranquillizzante nell’ultimo intervento dicendo che sono procedure e sistemi che le aziende possono adottare in modo personalizzato. Ma comunque questo poi, poiché è legato ai controlli, deve essere condiviso bene con l’altra parte affinché non ci siano conflittualità fra chi controlla e chi deve invece operare».
Più esplicito il presidente dell’Associazione vivaisti italiani Vannino Vannucci: «mi sembra di aver capito – ha detto - che ci siano margini per poter parlare insieme al nostro Servizio fitosanitario nazionale e trovare un’attuazione che sia praticabile dalle aziende, perché così come ci è stata presentata stamani sicuramente ingesserebbe». «In particolare – rincara Vannucci - per la puntualizzazione sulle movimentazioni da un sito all’altro dei vivai. Quante volte noi spostiamo le piante nella serra d’inverno, poi fuori e poi magari in un altro vivaio perché le rinvasiamo? Una pianta, specialmente se in vaso, la spostiamo anche 4 o 5 volte all’anno. Quindi diventerebbe una contabilità che attualmente non siamo in grado di svolgere, perciò un appesantimento burocratico ed economico che sicuramente creerebbe grossi problemi a tutte le aziende. Mi sembra di aver capito che c’è la possibilità di mediare la cosa. Noi con la nostra associazione, insieme alle altre associazioni, ci siamo già trovati per mettere su una commissione che possa trovare delle soluzioni attuabili e che possano essere discusse a livello nazionale».
«Ci sarà un aggravio di lavoro burocratico e anche di costi che calerà sulle aziende – ha commentato preoccupata Nada Forbici, presidente di Assofloro Lombardia - Perché questa contabilizzazione di tutta questa tracciabilità qui sarà veramente molto molto pesante per le imprese. Ne abbiamo già tanti di aggravi burocratici e la redditività delle nostre imprese non ci permette di trovare altri denari per rispondere alle richieste di questo nuovo regime fitosanitario». Non vi rassicura quanto detto dal direttore del Servizio fitosanitario Faraglia sulla norma della tracciabilità, cioè che non impone un come e dovrebbe alla fine lasciare libertà nelle modalità applicative alle aziende? «Questo mi fa ben sperare che effettivamente ci sia una disponibilità in particolare del Dott. Faraglia e del Ministero in maniera più ampia a collaborare con noi nell’ottica di quelle che sono effettivamente le esigenze delle aziende per poter rispondere al meglio al nuovo regime fitosanitario europeo». Resta il fatto che anche per lei, come per Vannucci, «la tracciabilità della movimentazione all’interno delle aziende è una cosa devastante, anche perché stiamo parlando di qualcosa di estremamente naturale, cioè tracciare una pianta dal campo al cortile dell’azienda, perché dalla zolla viene rizollata e posta nel vaso…».
Leggermente più cauta la risposta di Edoardo Sciutti, segretario di Anve (Associazione nazionale vivaisti esportatori), che ha dichiarato: «questo è un regolamento che uniforma un po’ tutti i vincoli che devono essere rispettati nell’Unione europea, quindi è un’opportunità di uniformità delle produzioni e del commercio di piante. Bisogna fare attenzione e seguiremo anche noi lo sviluppo dei regolamenti attuativi affinché questo non comporti un eccessivo carico amministrativo e burocratico per le aziende, perché potrebbe diventare da un’opportunità un limite in quanto le aziende non sono strutturate anche in termini di legge per adottare determinate registrazioni o altre misure. La preoccupazione è che da una situazione, già in vigore da anni, già rodata, che ha prodotto comunque dei risultati, si possa arrivare a un punto in cui ci sia una fase ingestibile dell’amministrazione dei vincoli richiesti». «Nel caso della tracciabilità – ha aggiunto Sciutti - il regolamento che è entrato in vigore dal primo gennaio del 2017 determina delle cose. Non ci sono i regolamenti attuativi ancora, ma sembra lasciare delle libertà di manovra: che si rispettino le indicazioni previste dagli articoli 69 e 70, ma che si trovi una via giusta per adattare la parte amministrativa alle realtà aziendali. Ci sono ancora dei canali aperti». E' possibile incidere sulle misure di attuazione? «Penso di sì – ha risposto - perché il regolamento è andato in vigore da quest’anno, ma ci sono tre anni di tempo per le misure attuative. Quello che faremo è lavorare intanto a livello nazionale e poi coinvolgere a livello internazionale Ena e le associazioni di categoria, con un lavoro di squadra che coinvolga tutta l’agricoltura».
Ecco infine la replica alle sollecitazioni dei vivaisti del direttore del Servizio fitosanitario nazionale del Ministero delle politiche agricole, Bruno Caio Faraglia: «sicuramente le sfide richieste agli operatori sono tante e le responsabilità che il regolamento mette in capo a loro sono parecchie. Esistono dei meccanismi all’interno del regolamento che sono di premialità: avere dei piani organizzati all’interno dell’azienda significa avere meno controlli, bisognerà capire che peso avranno i controlli con il nuovo regolamento controlli. Allora si tratterà di sfruttare la sufficiente elasticità che i regolamenti ci lasciano per dare modo alle singole aziende di organizzarsi al meglio secondo il loro sistema produttivo. Nel rispetto degli obiettivi collettivi che devono essere garantiti». «Il regolamento Ue 2031 – ha continuato Faraglia - ha fissato l’architettura generale e le procedure generali. Tutti i dati tecnici e tutte le specifiche: l’elenco degli organismi nocivi, come sarà il passaporto delle piante, come saranno effettuate le valutazioni di ogni singolo organismo nocivo è tutta materia che è stata demandata a decreti di applicazione o a deleghe dirette alla Commissione che sono in corso di sviluppo e che si svilupperanno per tutto il 2018. Quindi la discussione è ampiamente aperta poi su come rendere operativo e applicato il regolamento che oggi vediamo solo nella sua struttura generale». Il Mipaaf agirà in questa fase? «Il Mipaaf è presente in tutti i tavoli e in tutti i gruppi di lavoro della Commissione e manterrà stretto il legame con tutto il mondo produttivo».
All’incontro di oggi all’Accademia dei Georgofili sulle nuove norme europee fitosanitarie, incentrate sul Regolamento Ue 2016/2031, proposto l’impiego di un nucleo di Carabinieri forestali specializzati per controllare i punti d’entrata delle merci (che in Italia sono oltre 50 contro i 6 olandesi). Probabile una riduzione. Tra le novità del regolamento, tracciabilità totale dei prodotti, obbligo di segnalare anche i sospetti, modifica della struttura del passaporto delle piante.
Il nuovo regolamento Ue 2016/2031 rappresenta un importante traguardo per la tutela delle piante, ma al contempo un maggior impegno per l’Italia. In questa fase di definizione di un nuovo sistema per la difesa delle piante il Mipaaf non può non stare attento a creare le condizioni per dare risposte immediate di fronte all’insorgere delle emergenze fitosanitarie. Ma bisogna tenere conto delle risorse disponibili. Anche in quest'ottica può essere apprezzata la proposta, che vi verrà illustrata dal Dott. Faraglia, di maggiore coinvolgimento dei Carabinieri forestali nel sistema di controllo fitosanitario italiano.
Questo, in sintesi, il messaggio del sottosegretario di stato del Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali (Mipaaf) Giuseppe Castiglione che è stato letto oggi all’Accademia dei Georgofili di Firenze in apertura della giornata di studio sul tema “Il nuovo regime fitosanitario europeo – Regolamento Ue 2016/2031: impatto sull’attuale sistema dei controlli fitosanitari e sulle imprese vivaistiche ornamentali”, a cui è intervenuto per portare il suo saluto l'assessore regionale all'agricoltura Marco Remaschi. Un breve testo, inviato da Castiglione poiché non è potuto esser presente all’incontro e letto dall'accademico dei Georgofili Carlo Chiostri, che mette in evidenza una delle proposte avanzate dal direttore del Servizio sanitario nazionale del Mipaaf, Bruno Caio Faraglia, nella sua relazione “Verso i necessari adeguamenti normativi ed organizzativi del sistema delle protezioni della piante in Italia”: l’idea di avvalersi di un nucleo fitosanitario specializzato dei Carabinieri forestali, che dovrebbe presidiare tutti i punti di entrata delle merci autorizzati nazionali ed effettuare in maniera organica i controlli fitosanitari alle importazioni. Un’idea inserita in un generale ripensamento del sistema italiano di protezione delle piante, incentrato sempre sul Servizio fitosanitario nazionale, ma capace di maggiore coinvolgimento di tutti i soggetti esterni al sistema competenti in materia, puntando anche sulla poco valorizzata figura degli agenti fitosanitari. E che potrebbe essere accompagnata da una riduzione dei punti di entrata delle merci, che in Italia sono in numero eccessivo - come ha spiegato oggi l’accademico dei Georgofili Riccardo Russu - se paragonati a quelli dell’Olanda, che ne ha soltanto 6 (tre porti e tre aeroporti) contro i 52 italiani (16 aeroporti e 36 porti). Anche se l’Italia ha una conformazione diversa rispetto all’Olanda, ha detto Russu, i nostri punti di entrata sono infatti troppi e «gestirne così tanti è un’impresa impossibile». «Una razionalizzazione dei punti di entrata è in discussione – ha poi confermato Faraglia al termine dell’incontro - anche in funzione dei vincoli che Bruxelles ci dà sulle dotazioni e l’organizzazione dei singoli punti di entrata. Per cui è probabile che si arriverà anche a una razionalizzazione dei nostri punti di entrata».
Ma cosa comporterà per i vivaisti il nuovo regime fitosanitario europeo, che ruota attorno al Regolamento Ue 2016/2031, ma non si riduce ad esso dipendendo, come illustrato da Bruno Caio Faraglia e da Beniamino Cavagna (Sistema fitosanitario regionale Lombardia), da una serie di altre norme e poi dai decreti di applicazione dei suoi articoli? Impossibile riassumere nello spazio di questo articolo i 130 articoli del regolamento, ma, in generale, si può dire che il Regolamento 2031 – che è stato approvato il 26 ottobre 2016, è entrato in vigore da inizio anno, ma non è accompagnato ancora dalle misure attuative, di cui si discuterà da ora al 2018 - mantiene il sistema aperto, per cui sarà possibile spostare piante e prodotti vegetali verso l’Ue e al suo interno salvo divieti specifici, ma con una intensificazione e maggiore immediatezza dei controlli. Ci sarà innanzi tutto una revisione delle classificazioni degli organismi nocivi delle varie fasce di pericolosità (da quarantena, prioritari ecc.). Inoltre cambierà la struttura del passaporto delle piante, che consente la circolazione in Europa e contiene denominazione botanica della specie, codice dello stato, codice di tracciabilità ecc. ecc. Ci saranno più responsabilità per gli operatori professionali, che dovranno sapere tutto delle proprie piante, in un’ottica di tracciabilità totale: con obbligo di conservare queste informazioni per 3 anni e addirittura di tracciare tutti i movimenti all’interno dei vari siti produttivi di un’azienda. Gli operatori avranno pure l’onere di notificare alle autorità anche il semplice sospetto della presenza di un organismo nocivo da quarantena e dovranno adottare subito piani di emergenza.
Alla 2^ giornata della conferenza regionale dell’agricoltura di Lucca (6 aprile) è intervenuto il Commissario europeo per l’agricoltura Phil Hogan, che ha sottolineato la centralità della Politica agricola comune nel progetto Ue e ha parlato di Brexit e protezionismo di Trump. Per la Pac post 2020 l’assessore Remaschi ha chiesto spazio per criteri di ripartizione delle risorse quali gli occupati e/o il valore aggiunto ad ettaro. Il presidente Rossi ha aggiunto quello della tutela del lavoro e ha candidato la Toscana a Regione pilota per una eventuale Pac «secondo l’opzione 3»: con il 1° pilastro gestito su base regionale.
Piena disponibilità e condivisione di gran parte delle richieste relative all’impostazione della nuova Politica agricola comunitaria, la cosiddetta Pac post 2020, che sono venute fuori in questi giorni dal mondo dell’agricoltura toscana. A cominciare dal ruolo centrale che la Pac ha avuto e continua ad avere per il progetto Unione europea, con l’implicito impegno a favore di un budget destinato ad essa il più alto possibile, nonostante Brexit. Ma sul nodo cruciale di dare più spazio a criteri di ripartizione delle risorse alternativi rispetto alla superficie agricola utilizzata (sau) un silenzioso no comment.
Può essere riassunta così la prima tappa del tour italiano del Commissario europeo per l’agricoltura e lo sviluppo rurale, l’irlandese Phil Hogan, che è intervenuto ieri a Lucca presso il Real Collegio alla seconda e conclusiva giornata della Conferenza regionale dell’agricoltura. Vedremo se ci saranno sviluppi nelle prossime ore, visto che oggi alle 9,45 il Commissario Hogan terrà una conferenza stampa nella sede della Giunta regionale insieme al presidente Rossi, prima di partecipare all’inaugurazione dell’anno accademico dei Georgofili.
Ad accoglierlo a Lucca ieri c’erano l’assessore all’agricoltura Marco Remaschi, con cui ha prima visitato la piattaforma San Frediano sulle mura di Lucca, dalla quale ha assistito a uno show a cavallo con una piccola mandria di vacche dei «cowboy» maremmani, i butteri, e poi ha tenuto una conferenza stampa presso il Real Collegio. C’era il presidente della Commissione agricoltura della Camera dei deputati Luca Sani, a cui si è poco dopo aggiunto il presidente della Regione Toscana Enrico Rossi. Oltre a loro era presente una pressoché completa rappresentanza del settore agricolo toscano, a cominciare dai vertici delle associazioni di categoria degli agricoltori Cia, Coldiretti e Confagricoltura.
L’assessore Remaschi, sia in conferenza stampa che nella relazione durante la sessione plenaria di chiusura della Conferenza regionale, ha avuto parole di elogio nei confronti di Hogan per l’impegno da lui profuso affinché andasse in porto la piattaforma multiregionale per l’accesso al credito che sarà firmata a Verona prossimamente, a cui la Regione Toscana partecipa insieme ad altre 7 Regioni italiane mettendo 10 milioni di euro, che si aggiungono alle risorse di Bei (150 milioni), Fei (150 milioni) e altri soggetti quali Casse depositi e prestiti e Ismea, per un totale di circa 500 milioni. Somma che servirà come fondo di garanzia per facilitare l’accesso al credito delle aziende agricole e che dovrebbe consentire l’erogazione di crediti per oltre 2 miliardi di euro. Remaschi ha poi affermato che la Toscana condivide pienamente i 10 punti strategici per il futuro dell’agricoltura europea usciti da Cork 2.0.
Però l’assessore all’agricoltura della Toscana ha fatto presente a Hogan tre preoccupazioni del settore agricolo toscano. Primo, l’entità delle risorse della Pac post 2020, che dovrebbero ridursi anche alla luce di Brexit da cui dovrebbe derivare un taglio di 10 miliardi di euro all’anno sul bilancio comunitario e conseguentemente molte risorse in meno anche per la Pac (che con i suoi 400 miliardi circa di dotazione per il 2014-2020 vale adesso poco meno del 40% del budget Ue, il quale è a sua volta pari all’1 per cento del Pil comunitario). Secondo, la centralità della sau come criterio di ripartizione dei finanziamenti della Pac, a cui la Toscana agricola vorrebbe aggiungere criteri alternativi quali gli occupati ad ettaro oppure il valore aggiunto ad ettaro. Terzo, la necessità di una semplificazione amministrativa, «a fronte dei maggiori controlli e verifiche richiesti dalla Ue per l'attuazione del Programma di sviluppo rurale (Psr)». Hogan ha risposto a queste sollecitazioni di Remaschi e alle istanze rese note nei giorni scorsi da vari esponenti del mondo agricolo toscano, fra cui la necessità di sostenere un’agricoltura di qualità che punta all’eccellenza dei prodotti e il rischio delle politiche protezionistiche di Trump, visto che i 2/3 delle esportazioni agroalimentari toscane sono dirette verso gli Stati Uniti. «La reputazione agro-alimentare toscana – ha detto Hogan - è testimoniata da tutti i prodotti che ha a denominazione di origine o indicazione geografica, pari al 10% dei prodotti alimentari ed il 14% dei vini italiani» e l’Italia è il Paese con il primato di Dop e Igp, strumenti che la politica agricola comune porta avanti con convinzione per favorire l’eccellenza dei prodotti agroalimentari europei e la loro esportazione nei mercati extra-Ue, che nel 2016 è aumentata del 16%. Hogan ha poi dato merito alla Regione Toscana per gli 81 milioni di euro investiti in innovazione e trasferimento dei risultati della ricerca, voce essenziale per favorire la competitività delle aziende agricole e il recupero di potere dei produttori all’interno delle filiere. Riguardo alla Pac post 2020 ha detto che «è necessario un approccio comune alle politiche agricole. La Pac ha rappresentato e rappresenta uno strumento straordinario, quello di maggiore successo nella storia dell’Ue, senza il quale nulla sarebbe stato possibile [nel settore agricolo, ndr] sia in termini di creazione di posti di lavoro, che di prodotti salubri e di qualità che arrivano sulle nostre tavole. Occorre che la visione condivisa a livello europeo, creata grazie alla Pac, continui ad esistere e a diventare sempre più importante». Hogan auspica quindi «una Pac forte anche dopo il 2020».
Sui timori per la Brexit e per i dazi che Trump vuole imporre, Hogan ha cercato di minimizzare. «Con il Regno Unito – ha detto – c’è un legame molto forte. Una loro legge impone che il 40% dei prodotti venga importato, quindi da questo punto di vista non vedo problemi per il futuro. Inoltre sono fiducioso si possa arrivare, a breve, ad una sorta di accordo di libero scambio che porterebbe benefici reciproci. Riguardo agli Usa, i cittadini americani hanno dimostrato e dimostrano di voler prodotti agro-alimentari di qualità, come testimoniato dal +11% di esportazioni nel 2016. Spero che Trump, che ha fatto la propria scelta, non imponga dazi troppo elevati. Ma anche nel resto del mondo vogliamo continuare a crescere. L’anno passato sono stato in Cina, Messico, Colombia e prossimamente mi recherò in Arabia Saudita e Iran, accompagnato da prodotti e produttori di qualità. L'Ue quest’anno metterà a disposizione 130 milioni di euro per spingere i propri paesi a promuovere i loro prodotti». Infine Hogan si è detto «assolutamente d’accordo» sulla necessità di maggiore semplificazione delle procedure applicative della Pac, a cominciare dalle modalità delle erogazioni. Ma ha ricordato di essersi già attivato in questa direzione: «è un tasto sul quale ho battuto molto negli ultimi due anni, con ben 300 modifiche di procedimenti presentate. Un processo che continuerà per molti anni ancora. Un esempio? Quello che riguarda i sussidi erogati dagli enti pagatori: ho proposto che prima che la domanda venga presentata dagli agricoltori, si effettui un controllo preliminare in modo da eliminare gli eventuali piccoli errori che impediscono l'erogazione del sussidio e le possibili sanzioni che ne deriverebbero».
Nel discorso di chiusura della Conferenza regionale dell’agricoltura, al cospetto di Hogan, Enrico Rossi ha detto che «la qualità dei prodotti agricoli toscani è la leva da usare per abbattere i muri del protezionismo che ci vengono posti di fronte. È per questo che confidiamo nell'Unione europea e nel commissario Hogan al quale chiedo di fare in modo che i fondi che ci sono stati garantiti nel settennato in corso vengano almeno riconfermati. E speriamo di poter ricevere per il periodo 2021-2027 anche più dei circa 415 milioni avuti dall'Europa nel settennato 2014-2020». Rossi si è detto grato nei confronti del commissario Hogan per aver promesso tre anni fa di venire in Toscana e per aver mantenuto quell'impegno, ma anche per il sostegno che ha fornito perché fosse riconosciuta la Denominazione di origine protetta per il pane toscano, una decisione che «permetterà all'agricoltura toscana di riprendersi e di coltivare tante terre che altrimenti sarebbero rimaste non utilizzate». Enrico Rossi ha poi integrato le richieste di Remaschi sulla nuova Pac parlando, a proposito dei criteri di ripartizione dei finanziamenti aggiuntivi, di «tutela del lavoro» e non solo occupati ad ettaro. Questo anche nell’ottica di combattere il fenomeno assai diffuso del lavoro irregolare e dello sfruttamento della manodopera in agricoltura e per favorire l’inserimento di una parte degli immigrati, che spesso finiscono a lavorare nei campi. «Con modestia – ha concluso Rossi - vorremmo candidarci come Regione pilota nell’Unione europea per una eventuale fase di prova della nuova politica agricola comunitaria. Noi sosteniamo con convinzione l'opzione tre, quella che propone una programmazione della Pac in funzione dei bisogni dei territori e con il 1° pilastro gestito su base regionale. Una scelta che darebbe alle Regioni la possibilità di programmare in base alle reali esigenze individuate, sostenendo lo sviluppo delle piccole e medie imprese rurali, ponendo l'accento sugli incentivi in materia di cambiamenti climatici, di servizi per l'ambiente e di accesso all'innovazione e quindi di prosperità delle aree rurali».
Nella giornata di apertura della Conferenza regionale dell’agricoltura a Lucca l’assessore Remaschi ha anche chiesto una maggiore efficienza dell’Agea. Le aspettative della Regione Toscana per la Pac post 2020: non adottare il criterio unico delle superfici agricole e più innovazione da parte degli agricoltori. Due dati in evidenza: i 2/3 dell’export agroalimentare sono diretti negli Usa (dove Trump potrebbe imporre più dazi); la Regione ha già allocato 2/3 del Psr 2014-2020.
Uno studio della Commissione europea ha analizzato le cause della complicazione della Politica agricola comune (Pac). Il punto importante è che in esso, prima di tutto, «si ammette che nella Pac 2014-2020 non si è raggiunta la semplificazione» agognata. Nel 1° pilastro della Pac la colpa sarebbe per metà della Commissione europea e per metà degli Stati membri, nel 2° pilastro invece l’80% delle responsabilità viene attribuito agli Stati membri. «A mio avviso questo studio è troppo generoso con la Commissione europea».
Così il direttore di Artea, Roberto Pagni, nel suo intervento alla sessione di ieri pomeriggio della terza “Conferenza regionale dell’agricoltura e dello sviluppo rurale”, in corso a Lucca presso il Real Collegio dal 5 al 6 aprile, si è espresso su quello che, a parere concorde di tutti gli esponenti del settore agricolo toscano intervenuti alla Conferenza, è uno degli elementi più negativi della Pac 2014-2020, problema che va assolutamente risolto nella Pac post 2020. Come aveva detto l’assessore all’agricoltura della Toscana Marco Remaschi al termine della relazione introduttiva, «la responsabilità della eccessiva burocrazia è sia della Unione europea (Ue) che degli Stati membri, perché questi ultimi potevano semplificare. Fatto sta che è indispensabile un cambio di passo» e «fra le grandi questioni dell’agricoltura italiana c’è la necessità di rimettere a posto Agea (l’ente pagatore nazionale, ndr) e di rendere più efficiente il sistema di pagamento agli agricoltori».
Ma, al di là di questa critica unanime alla burocrazia della Pac con relativa richiesta di semplificazione all’Ue e per la sua parte al Ministero delle politiche agricole italiano, l’incontro di apertura della Conferenza dell’agricoltura è stato l’occasione per fare il punto sullo stato dell’arte dell’agricoltura toscana nel contesto dell’agricoltura europea - su cui incombono i rischi di una Pac ridimensionata a causa dei 9 miliardi in meno all’anno nel bilancio europeo per via della Brexit e del protezionismo di Trump (che potrebbe avere un impatto molto negativo sulla Toscana, visto che 2/3 delle esportazioni agroalimentari regionali sono dirette negli Stati Uniti) – e per raccogliere qualche idea e suggerimento da consegnare al Commissario europeo per l’agricoltura e lo sviluppo rurale Phil Hogan, che, come ha spiegato Remaschi, ha avviato lo scorso febbraio la fase di consultazione pubblica in vista della Pac post 2020. Questa fase durerà fino al 2 maggio e a luglio il Commissario Hogan presenterà a Bruxelles i risultati di tale fase. La Toscana, ha affermato Remaschi, ha due obiettivi principali: a) fare in modo che la sau (superficie agricola utilizzata) non sia il criterio guida nell’assegnazione dei finanziamenti (il che significherebbe una forte riduzione dell’attuale dote finanziaria destinata all’agricoltura italiana, se la somma del bilancio comunitario per agricoltura e sviluppo rurale diminuirà); b) stimolare gli agricoltori all’innovazione nel rispetto della sostenibilità ambientale.
Alla sessione di ieri della Conferenza dell’agricoltura hanno partecipato anche due membri della Commissione europea, che hanno dato spunti interessanti ai presidenti regionali di tutti i principali soggetti di rappresentanza della filiera agricola italiana. Per primo Aldo Longo (Direzione generale Agricoltura e sviluppo rurale), nella sua relazione sul ruolo dell’innovazione e degli strumenti finanziari, ha tra l’altro ricordato le opportunità per il settore primario che la Commissione europea si attende dall’estensione dell’uso delle tecnologie digitali in agricoltura: «creerà le condizioni per nuovi servizi e prodotti». «L’agricoltura europea – ha continuato Longo – è ancora arretrata in questo senso» per tre motivi: scarsa propensione al rischio degli agricoltori (temono che tali investimenti non producano più reddito), timore per il cambiamento del modello d’impresa che tali tecnologie implicano e riluttanza a condividere i dati con gli esperti di tecnologie. Aldo Longo ha infine ricordato la piattaforma multiregionale per l’accesso al credito che sarà firmata a Verona in coincidenza con Vinitaly. Uno strumento, ha spiegato, per offrire garanzie pubbliche che agevolino la concessione di prestiti. Il 50% del rischio sarà assunto dalla parte pubblica, ha detto, questo grazie alla partecipazione di organismi quali la Banca europea degli investimenti (Bei), il Fondo europeo per gli investimenti (Fei), Cassa depositi e prestiti (Cdp), Ismea e 8 regioni italiane fra cui la Toscana. Poi è intervenuto Bruno Buffaria (anche lui della Dg Agricoltura della Ce) che ha spiegato l’importanza economica delle filiere agroalimentari e come la Commissione europea intende riequilibrarli. «Il contesto dell’economia globale in cui si inserisce l’agricoltura europea – ha detto – comporta l’esposizione a rischi economici altissimi: instabilità dei mercati e volatilità dei prezzi. E poi c’è il rischio politico, ben esemplificato dall’embargo russo». Le filiere agroalimentari, ha spiegato, hanno dato una risposta a tale difficile situazione, perché «sono in grado di produrre valore aggiunto» rispondendo a una domanda sempre più segmentata e variegata. Prima di iniziare il percorso verso la nuova Pac post 2020 il Commissario Hogan, un anno fa, ha posto la seguente domanda-guida a una task force di esperti: che cosa dobbiamo fare per rafforzare ulteriormente l’efficienza economica delle filiere e il potere di mercato dei produttori agricoli? Gli esperti a novembre del 2016 gli hanno consegnato un rapporto con 7 raccomandazioni, fra cui le seguenti tre (oltre alle misure per agevolare il credito come quella citata da Longo della piattaforma multiregionale): 1) trasparenza di mercato e più informazioni economiche (perché si conoscono bene i prezzi alla produzione e quelli finali al consumo, ma non altrettanto quello che succede all’interno delle filiere); 2) porre fine alle pratiche commerciali sleali impegnando gli Stati membri a indicare un ente responsabile di questa materia; 3) ridefinire il rapporto tra politica agricola comune e politiche per la concorrenza economica.
Nel suo intervento sui cambiamenti climatici e l’agricoltura, il presidente dell’Accademia dei Georgofili Giampiero Maracchi ha concluso parlando delle energie alternative in agricoltura, o meglio del contributo che l’agricoltura può dare a un uso più diffuso delle energie alternative. Se in tutti gli spazi rurali disponibili in Italia, ha sostenuto Maracchi, si adottassero in maniera ottimale le varie tipologie di energie rinnovabili (solare, eolico, biomasse) si potrebbe produrre una quantità di energia equivalente a quasi la metà dell’attuale consumo di energia elettrica in Italia. Inoltre con un uso ottimale a fini energetici dei residui agricoli (biomasse residuali) si potrebbe produrre 3 volte la quantità di energia consumata dall’agricoltura italiana. Del resto, ha ricordato Maracchi, la Danimarca con il 20% della sau coltivata a colza produce il 145% del fabbisogno energetico della propria agricoltura.
I numeri dell’Irpet sull’agricoltura toscana
Simone Bertini, dirigente dell’Irpet, ha fotografato l’andamento del comparto agricolo nei dieci anni trascorsi dal 2006, quando si svolse la seconda Conferenza regionale dell’agricoltura, e oggi. «Dopo la fase più difficile, tra il 2010 e il 2012 - ha rilevato - nell'ultimo triennio si nota un ritrovato dinamismo da diversi punti di vista: esportazioni, occupazione, valore della produzione, razionalizzazione dei costi all’interno delle imprese». Riguardo alle aziende, sono diminuite da circa 80 mila nel 2006 alle 70 mila dell’ultima rilevazione (a cui vanno aggiunte oltre 5 mila aziende agro-industriali), ma in compenso la dimensione media aziendale è aumentata da 9 a 10,5 ettari. Anche se la sau si è ridotta. Sul fronte della produzione, il confronto 2006 e oggi dice che l’agricoltura e l’agroalimentare hanno mantenuto all’incirca lo stesso livello. Ciò grazie al recupero degli ultimi 3 o 4 anni, dopo un periodo di crisi. Attualmente il valore aggiunto di agricoltura e agroalimentare toscano insieme ammonta a 3,2 miliardi di euro, di cui 2 miliardi (pari al 70%) da attribuire alla parte strettamente agricola. Tale valore è prodotto in misura sempre maggiore dalle coltivazioni legnose. Come è facile immaginare il primato spetta al vino (la produzione di vino è aumentata del 20%). Significativo anche il contributo delle produzioni zootecniche (per un valore di oltre 500 milioni di euro), con una redistribuzione tra le tipologie di allevamenti: in aumento pollame e suini in diminuzione bovini, ovini e caprini. L’andamento dell’export del settore agricolo nel decenio 2006-2016 ha visto una contrazione dell’8% nel 2013 e poi una ripresa negli anni successivi (+5% nel 2016). Meglio il settore alimentare: + 21% nell’ultimo decennio. Complessivamente l’export agroalimentare vale 1,8 miliardi di euro e corrisponde al 7% delle esportazioni toscane e al 6% di quelle agroalimentari italiane. Suddividendo la voce agroalimentare in prodotti alimentari e prodotti agricoli si vede che l’export dei primi vale 1,6 miliardi, mentre l’export dei prodotti agricoli 221 milioni. Da sottolineare infine che 2/3 delle esportazioni toscane hanno come destinazione gli Stati Uniti d’America, che importano per il 95% bevande e oli e grassi. Riguardo infine agli occupati, sono al momento 51 mila in agricoltura e il numero è in costante crescita dal 2012. All’ultimo censimento l’età mediana degli agricoltori era altissima, 62 anni, con oltre la metà con più di 60 anni e nemmeno il 10% degli agricoltori sotto i 40 anni. Tuttavia, si stima che le aziende condotte dai giovani abbiano una produttività maggiore rispetto alle altre di circa il 7%.
Finanziamenti europei in Toscana
Nell’incontro di ieri sono stati forniti anche i dati sui contributi comunitari, di cui hanno parlato il dirigente regionale Antonino Mario Melara per il 2° pilastro (Psr 2014-2020) e il direttore di Artea Roberto Pagni per il 1° pilastro (contributi diretti e ocm). In sintesi, riguardo al Programma di sviluppo rurale 2014-2020, sui 962 milioni previsti (43% dell’Ue, 39% dello Stato e 17% della Regione), la Regione Toscana è già riuscita ad allocarne 624 milioni. Sono 18 i bandi e le procedure negoziali già pubblicati nel corso di questa prima fase di attuazione del piano. Tra questi da segnalare la partecipazione al bando agricoltura biologica (2.059 domande tutte finanziate) e al pacchetto giovani (oltre 800 domande finanziate). Da segnalare anche la partecipazione alla sottomisura "Investimenti aziende agricole" (472 domande finanziate), ai progetti integrati di filiera (39 progetti finanziati), alla sottomisura relativa alle indennità compensative nelle zone montane (3326 aziende finanziate). Sono invece 10 i bandi attualmente aperti, con un totale di 42 milioni a disposizione, e 14 quelli che saranno aperti entro la fine del 2017 con un ulteriore stanziamento di 94 milioni. Tra le voci di finanziamento: la realizzazione di impianti per la produzione di energia da fonti rinnovabili (10 milioni) la salvaguardia della biodiversità, l'agricoltura sociale, l'acquisto di nuovi macchinari e attrezzature, il miglioramento della redditività e della competitività delle aziende agricole e anche gli interventi relativi agli strumenti finanziari. Infine, riguardo al 1° pilastro, quello degli interventi diretti di sostegno al reddito degli agricoltori e degli aiuti al mercato attraverso le cosiddette organizzazioni comuni di mercato, che hanno per fine equilibrare gli impatti sui mercati agricoli comuni esercitati da fattori esterni quali le condizioni atmosferiche o un'elevata volatilità dei prezzi, le cifre indicano che in Toscana nel 2015 e nel 2016 sono stati effettuati pagamenti diretti e aiuti alle Organizzazioni comuni di mercato per oltre 372 milioni di euro. Come spiegato da Pagni, in Toscana il numero dei beneficiari di contributi del 1° pilastro è stato di 41.182 individui, pari all’1,1% della popolazione (contro una media italiana dell’1,8%), con un contributo medio di 4.163 euro (contro una media nazionale di circa 3.500 euro). Da sottolineare che il 64% dei beneficiari riceve un contributo di meno di 1250 euro. Infine ¼ della superficie non è interessato al pagamento diretto della Pac.
A Firenze il ristorante-bistrot La Ménagère ospita il negozio di fiori Artemisia. Un connubio che genera una versione innovativa sia della ristorazione che dell’attività di fiorista. L’allestimento floreale del ristorante crea un «effetto giardino» e ingentilisce i tavoli. Cucina italiana con un tocco francese di nouvelle cuisine.
Quando si passa davanti all’ingresso si resta per un attimo spiazzati: le cassette con le piantine occupano lo spazio centrale davanti alla porta di vetro, tutto intorno però si vedono i normali tavolini di un locale. Ma la sorpresa dura un istante, perché l’impatto è naturale e armonico, tutto torna. Non resta che la curiosità di entrare a vedere.
Almeno questo è l’effetto che ha fatto su Floraviva la facciata del ristorante e bistrot, con negozio di fiori e vendita di casalinghi, La Ménagère di via Ginori a Firenze, a due passi dalla basilica di San Lorenzo. Un locale, aperto dalla mattina alle 2 di notte, dove l’incontro fra intrattenimento enogastronomico e leggerezza dell’ambientazione verde fiorita sembra aver trovato il giusto punto di equilibrio. Grazie alla qualità del cibo, ma anche alla presenza del bancone dei fiori e alle scelte del design floreale nell’allestimento degli spazi: i fiori recisi con le radici a nudo, orchidee in questa circostanza, appesi al soffitto e sospesi nella sala ristorante, il vasetto con fiore (nell’occasione, un anemone) a ingentilire ciascun tavolo.
Come ci ha raccontato il maître francese, Fabien Coutant, «dietro a questo ristorante c’è un preciso progetto. Prima di tutto ci troviamo in via Ginori al n. 8 rosso in un locale con una storia, che si chiamava già prima del nostro arrivo La Ménagère (la casalinga, colei che si occupa degli affari domestici).
Era un negozio di articoli casalinghi che aveva una reputazione speciale a Firenze: di negozio chic e di buon gusto. E quando siamo arrivati, nel giugno 2015, aveva alle spalle oltre 100 anni di attività». Con la pausa dal 2005 al 2015, periodo in cui il locale è stato occupato da un altro ristorante, come ci ha spiegato all’ingresso Victoria, addetta all’accoglienza, vero? «Sì – risponde Fabien - ma la proprietà ha voluto recuperare il nome del vecchio negozio di casalinghi, il cui anno di nascita è il 1896. E infatti all’ingresso del locale, a rappresentare simbolicamente questa tradizione, abbiamo la vendita di articoli per la casa».
E la presenza del negozio di fiori? «Anche questo fa parte del concept, dell’idea iniziale del titolare: lui voleva che ci fossero i fiori nel ristorante». E’ il primo di questo genere a Firenze, ne avete creati altri simili? «No. Ma non siamo noi a gestire l’attività di fioraio. Il punto vendita di fiori è gestito autonomamente da Artemisia, che pensa anche al design floreale del ristorante». Riguardo alla cucina, curata dal giovane chef Donato Mutri, qual è la vostra filosofia, come può essere caratterizzata la vostra offerta? «Una cucina abbastanza semplice, non elitaria, anche per contenere i prezzi – spiega Fabien -. Usiamo prodotti semplici che si trovano quotidianamente, appena elaborati. Ci piace giocare sul dolce/salato, sulle salse agrodolci o un po’ fruttate. Però, ripeto, si tratta sempre di piatti semplici: facciamo gli gnocchi, gli spaghetti… ». Qualche esempio di vostro "piatto forte”? «Una delle nostre specialità sono gli gnocchi fatti in casa, senza patate e con crema di cacio toscano e pepe, e con solo un po’ di mela verde e limone sopra. Poi abbiamo la guancia di manzo, questa carne stracotta, tre ore al forno come un bourguignon, tenera, che si scioglie in bocca». E che mi dice degli spaghetti alle alici? «Ci abbiamo messo anche i mandarini dentro a quel piatto. E’ uno spaghetto fatto in casa, con la crema di mandarino e un’alice fresca marinata sopra, e una mollica di pane al mandarino per aggiungere un po’ di croccante».
E poi un dessert in cui il gioco dolce/salato si apprezza particolarmente: «è il Sable Breton, in cui si sente una punta di sale. Il sable è abbastanza secco come biscotto, e qui è ricoperto di mousse al cioccolato con sopra dei lamponi freschi su cui mettiamo una punta di sale». In conclusione, possiamo parlare di cucina italiana con un tocco di Francia? «Cucina italiana con tratti di nouvelle cuisine, anche per la maniera un po’ più elegante di presentare i piatti, che però sono alla base molto semplici».
Passando al negozio di fiori, la titolare di Artemisia – fioristi, Ilaria Minniti, ci spiega che questo è il suo unico negozio e che la scelta di trasferirsi qua, dentro a un ristorante, è nata in seguito alla proposta del titolare de’ La Ménagère. Del resto aveva già una vocazione per il dialogo fra attività floreale e altri generi di attività creative. «Avevo già fatto un progetto simile – spiega - …». In un ristorante? «No, in un negozio di abbigliamento del centro di Firenze, nel 2006. Per cui quando mi è stato proposto questo ristorante, ho colto subito l’occasione». Che cosa le piaceva dell’idea? «La condivisione, perché io ci ho sempre creduto, e quindi l’idea di condividere lo spazio mi piaceva». Ma le sarebbe andato bene con qualunque tipo di attività o la convinceva in particolare la condivisione con la ristorazione? «Con la ristorazione. E poi sapevo che ci sarebbe stata una vendita anche di articoli per la casa, per cui è tutto attinente alla casa, all’interior design, e poi era bello il progetto degli architetti che hanno disegnato questo locale». Come è impostata l’attività di questo negozio di fiori, Artemisia, che è autonomo rispetto al ristorante? «Noi lavoriamo molto con elementi materici. Lo stile è uno stile naturale, con niente di costruito o artificioso». Curate anche l’allestimento vegetale di tutto il locale, vero? «Sì, ogni pianta è scelta e posizionata da noi… nel dialogo con i gestori del ristorante, ovviamente». Anche quelle orchidee sospese in aria con le radici a nudo nell’area ristorante? «Sì, appena ho visto questo lucernario, la prima cosa a cui ho pensato è stata di appendere, di appendere elementi, appendere piante». Che varietà sono? «Sono orchidee della varietà Vanda.. Ma l’aspetto che mi piace sottolineare è che i nostri allestimenti sono in movimento: perché i fiori, che deperiscono, devono essere cambiati continuamente. Quindi è uno spazio sempre diverso». Infine, dove vi approvvigionate? Per caso anche al mercato dei fiori di Pescia? «Molti fiori arrivano dall’Olanda, con fornitori olandesi che ci spediscono le merci direttamente qua. E per quanto riguarda Firenze, ci rivolgiamo a Flora Toscana, soprattutto per alcuni prodotti toscani o per prodotti di Sanremo come i ranuncoli».
Infine non va trascurato il negozio di casalinghi che si trova appena varcata la soglia della Ménagère. Non solo per il suo «richiamo simbolico al negozio storico di articoli casalinghi del 1896». Ma anche per la sua selezione mirata di articoli sia di importanti case estere che di aziende italiane, fra cui anche una a carattere più artigianale di Montelupo, una delle patrie della ceramica made in Italy.
Dopo i forti cali del periodo 2010-2012 negli ultimi 3-4 anni è incominciata una lenta ma costante ripresa. Il direttore dell’Irpet Casini Benvenuti: il settore agricolo ha invertito la tendenza e può tornare ad essere protagonista. Se si esclude l’alimentare, la provincia di Pistoia è la regina dell’agricoltura toscana per la produttività (con un valore aggiunto a lavoratore più del doppio di quello medio agricolo) e ancor più alla voce esportazioni.
«Nel confronto con la Toscana del 2006 l'agricoltura e l'agroalimentare toscano hanno mantenuto pressoché inalterati i livelli di produzione e valore aggiunto. Ed è un risultato maturato soprattutto negli ultimi tre-quattro anni, nei quali il comparto ha saputo recuperare i bruschi salti all'indietro del triennio 2010-2012, autentico epicentro della crisi».
E’ la fotografia dei dati Irpet diffusa dall’assessorato all’agricoltura della Regione Toscana durante l’incontro di stamani di presentazione della Conferenza regionale dell’agricoltura e dello sviluppo rurale in programma la prossima settimana a Lucca, che avviene appunto a distanza di 11 anni dalla precedente. I dettagli del confronto statistico con il 2006 (anno della ultima conferenza) saranno illustrati nella giornata di apertura dell'assise del 5-6 aprile, ma oggi sono stati anticipati alcuni dati.
Riguardo alla produzione, «il valore aggiunto di agricoltura e agroalimentare toscano – è riportato nel comunicato stampa diffuso oggi - ammonta a 3,2 miliardi di euro, di cui 2 miliardi (pari al 70%) da attribuire alla parte strettamente agricola. Tale valore è prodotto in misura sempre maggiore dalle coltivazioni legnose (in primis la viticoltura, la produzione di vino è infatti aumentata del 20% nel decennio). Significativo anche il contributo delle produzioni zootecniche (per un valore di oltre 500 milioni di euro), con una redistribuzione tra le tipologie di allevamenti: in aumento pollame e suini in diminuzione bovini, ovini e caprini». Come precisato in alcune tabelle presentate ieri da Irpet il valore aggiunto dell’agricoltura toscana si aggira intorno a un peso del 2,5% su quello dell’intera economia regionale. E se guardiamo la distribuzione provinciale del valore aggiunto agricolo, spicca quello della provincia di Pistoia, che si attesta infatti al 26% del valore aggiunto totale delle dieci province della regione (ed è presumibilmente da imputare quasi completamente al florovivaismo in senso esteso, cioè a comprendere in primis il vivaismo e poi la floricoltura).
Per quanto riguarda imprese e occupati «sono circa 72.000 le imprese agricole della Toscana. La tendenza dell'ultimo decennio è stata quella di una diminuzione delle aziende, ma anche di una loro crescita dimensionale: la dimensione media aziendale è passata da 6,5 a 10,5 ettari. Gli occupati in agricoltura sono attualmente 51.000. Anche in questo caso vi è stata una contrazione rispetto al 2006 (-12%) ma dal 2012 il numero di occupati è in costante crescita».
Infine «l'export dell'agroalimentare ha un valore di 1,8 miliardi di euro e corrisponde al 7% delle esportazioni toscane, al 6% delle esportazioni agroalimentari italiane. All'interno di questi dati si nota una crescita costante dell'export di prodotti agroalimentari, che rappresentano la fetta decisamente più consistente (1,6 miliardi) rispetto a quella dei prodotti agricoli (221 milioni di euro). Le esportazioni hanno come paese privilegiato gli Stati Uniti, seguiti da Germania, Regno Unito, Francia e Canada». Su questo fronte, come riportato dalle tabelle dell’Irpet presentate ieri, se si distingue l’agricoltura (prodotti di colture, animali e prodotti di origine animale, prodotti forestali, prodotti della pesca) dall’agroalimentare (carne e pesce lavorati, frutta e ortaggi lavorati e conservati, oli e grassi, prodotti dell’industria lattiera, prodotti da forno e altri prodotti alimentari e bevande) risulta che l’80% dell’export agricolo è concentrato nella provincia di Pistoia.
«A livello generale – ha commentato per Floraviva Stefano Casini Benvenuti, direttore dell’Irpet – metterei in evidenza che l’agricoltura negli ultimi 3 anni ha avuto un’inversione di tendenza significativa su più piani: sul piano dell’immagine, su quello qualitativo, ma anche sul piano quantitativo, visto che sono aumentati gli addetti (e in altri settori questo non è successo). I numeri sono piccoli, però è interessante l’inversione di tendenza».
«Naturalmente – ha precisato Casini Benvenuti - questo può essere in parte dipeso anche dalla crisi di altri settori, ma ci sono attività agricole con elementi d’innovazione e ricerca importanti. Tutto questo fa sì che sia un settore che può tornare ad essere protagonista, anche per i suoi legami con il resto dell’economia. E poi per un aspetto che per l’agricoltura è sempre stato importante e che ora lo è diventato ancora di più: le ricadute sulle esternalità. Cioè l’agricoltura ha effetto sull’ambiente, sul territorio, per cui è importante avere anche piccoli appezzamenti in cui persone magari in pensione occupano un pezzo di territorio. E soprattutto sul paesaggio perché garantiscono un paesaggio toscano che ha degli effetti decisivi su tutta l’economia».
«Se si guarda la distribuzione della produzione agricola e delle esportazioni – ha aggiunto il direttore dell’Irpet - emergono due aree: una grande, che è il sud della Toscana, che è fortemente agricolo e con molti lavoratori, ma con una produttività media per lavoratore più bassa di quella regionale; e poi spicca Pistoia con il florovivaismo, che ha un numero di addetti non banale, ma emerge soprattutto per la produttività. Basti pensare che il valore aggiunto medio per lavoratore agricolo in Toscana è di 44 mila euro a testa, mentre a Pistoia siamo a 107 mila. Quindi è un settore forte. Le piante sono dal punto di vista della produzione, dell’immagine e del valore uno degli elementi fondamentali della nostra agricoltura».
Alla presentazione a Firenze della Conferenza regionale di settore che si terrà il 5 e 6 aprile a Lucca l’assessore Remaschi ha sottolineato le parole chiave della nostra agricoltura: qualità, innovazione e sviluppo. Al Commissario europeo dell’agricoltura Hogan saranno chiesti criteri di assegnazione delle risorse della Pac post 2020 non più centrati sulle superfici agricole. L’assessore ribadisce la sinergia positiva fra agricoltura e turismo all’insegna del paesaggio toscano.
«Sarà una due giorni importante, viste presenze istituzionali quali il Commissario Hogan, il ministro dell’agricoltura Martina, Paolo De Castro, il presidente della Regione Enrico Rossi, oltre alle presenze delle organizzazioni professionali e gli attori principali della nostra filiera agroalimentare. Una due giorni in cui ci concentreremo sulle parole chiave su cui stiamo lavorando: qualità, innovazione e sviluppo».
Così l’assessore regionale all’agricoltura Marco Remaschi ha illustrato oggi a Firenze nella sede della Giunta regionale, al cospetto del gotha dell’agricoltura toscana, la prossima Conferenza regionale dell’agricoltura e dello sviluppo rurale, che si svolgerà a Lucca dal 5 al 6 aprile con il titolo “Obiettivo terra, agricoltura di qualità, innovazione e sviluppo intelligente delle aree rurali” (vedi nostro articolo). Un’occasione in cui il mondo agricolo toscano e non solo si incontrerà per fare il punto sul suo stato di salute e per gettare le basi su cui lavorare nei prossimi anni. E questo davanti, appunto, al Commissario europeo per l'agricoltura e lo sviluppo rurale Phil Hogan - che resterà in Toscana anche il 7 aprile per partecipare a Firenze all’inaugurazione dell’anno accademico dei Georgofili -, cioè a colui che tirerà le fila della nuova Politica agricola comunitaria, la cosiddetta Pac post 2020, in vista della quale sono iniziate le consultazioni a partire dallo scorso febbraio.
«Noi dobbiamo mettere in campo – ha detto Marco Remaschi prima dell’inizio della presentazione della Conferenza agli esponenti del mondo agricolo - delle politiche che tendano a rafforzare il lavoro delle nostre imprese agricole, delle azioni che siano più performanti nel contesto della globalizzazione dei mercati. Dobbiamo capire come si può migliorare l’aspetto dell’approccio ai mercati, facendo reti d’impresa, tramite il mondo della cooperazione o le organizzazioni dei produttori, e quali siano le politiche da intraprendere con l’Europa in relazione alla Pac post 2020, perché se alcuni criteri di ripartizione delle risorse finanziarie dipendono principalmente dalla sau, la superficie agricola utilizzata, questo è penalizzante per la Toscana e per l’Italia e quindi dobbiamo farlo presente con forza al ministro Martina, ma anche all’Europa». «Altri devono essere i criteri sui quali ci dobbiamo misurare – ha continuato Remaschi - e li dobbiamo concordare con gli altri Paesi membri. Abbiamo tempo ma ci dobbiamo lavorare. E poi dobbiamo fare in modo che ci sia anche da parte del mondo degli agricoltori un cambio culturale: dobbiamo favorire il ricambio generazionale degli agricoltori ma dobbiamo riprendere anche a investire e cercare di rendere le nostre aziende più competitive sui mercati».
«La Toscana, che punta da sempre sulla qualità delle sue produzioni, che sono legate al nostro paesaggio, al nostro territorio, e che ha un microclima particolare, - ha detto Remaschi - deve insistere a fare della qualità delle produzioni e della loro salubrità un valore aggiunto e deve anche educare il consumatore finale per valorizzare ulteriormente alcune filiere. Mi viene in mente ad esempio quella olivicola, su cui stiamo lavorando ma senza aver raggiunto determinati livelli che sono necessari per fare non solo apprezzare il nostro olio a livello mondiale ma per permettere ai nostri agricoltori di investire, cosa che è stata fatta con grandi risultati nella viticoltura».
Sollecitato sulle aggregazioni dai giornalisti, Remaschi ha risposto: «dobbiamo affrontare un mercato globale, ogni singolo agricoltore chiaramente non ce la può fare da solo. C’è la grande distribuzione che è un’interfaccia importantissima. Noi ci dobbiamo presentare ai mercati globali con un’offerta di produzioni che possono essere soltanto di grande qualità. Noi non possiamo lavorare sulla quantità, saremmo perdenti e ciò vorrebbe dire declinare a morte certa le imprese agricole toscane. Noi facciamo grande vanto del nostro paesaggio, anche l’agricoltura deve rispettare questo approccio. Non è facile, ma c’è la consapevolezza di quanto il made in Toscana sia forte e rilevante, ci è riconosciuto e dobbiamo rafforzare questa idea».
Sollecitato sulla compatibilità fra turismo enogastronomico e agriturismo da un lato e produzione primaria dall’altro, Remaschi ha concluso affermando: «che l’agricoltura e il turismo vadano a braccetto lo diciamo da tempo. Sicuramente l’agricoltura e l’agroalimentare sono un volano per il nostro turismo, perché tanti vengono qui e apprezzano il nostro stile di vita, il buon mangiare e il buon bere che c’è in Toscana. Ugualmente il turismo è un volano importantissimo per la nostra agricoltura: quando noi vendiamo una bottiglia di olio e una bottiglia di vino, non è soltanto il contenuto della bottiglia di olio e di vino, ma c’è dentro tutta l’identità territoriale. Noi dobbiamo puntare sulla qualità».
Il direttore di Cia Toscana, in occasione dell’incontro del 27 marzo a Firenze sul tema “Agricoltura è lavoro”, illustra la situazione della nostra regione. Per Pascucci l’occupazione tiene e i casi caporalato sono pochi, ma chiede attenzione alle infiltrazioni malavitose mirate a fare acquisizioni per riciclare denaro sporco. L’abolizione dei voucher? Un errore che lascia scoperte alcune aree del lavoro agricolo.
Oltre 100 mila lavoratori considerando anche stagionali, autonomi e familiari. A tanto ammonta l’occupazione generata dall’agricoltura toscana. Ma dietro a questo dato generale si cela una casistica molto variegata, in cui è facile confondersi, causata soprattutto dalle differenti classificazioni di imprese e lavoratori agricoli a seconda delle differenti fonti normative a cui si fa riferimento.
E’ quanto emerso ieri all’incontro “Agricoltura è lavoro” organizzato da Cia Toscana a Firenze nella sala Pegaso della Giunta regionale. Nel 2015 erano 22.912 i lavoratori autonomi iscritti all’Inps, con 8.380 datori di lavoro. Fra questi, ha spiegato Cia Toscana, sono 5.002 le imprese agricole in economia, mentre risultano 3.173 coltivatori diretti che sono iscritti come autonomi ma hanno anche dipendenti. I datori di lavoro con dipendenti sono 6.425 che occupano circa 55.432 lavoratori. Il dato ancora più significativo è relativo al numero degli occupati: 2.276 imprese hanno un solo dipendente fisso, 1.269 due dipendenti, 1.541 da tre a cinque e 665 imprese da 6 a 9. E ancora: 5.751 imprese agricole hanno meno di 10 dipendenti, solo 432 da 10 a 19, 193 da 20 a 49, 38 da 50 a 99, 13 da 100 a 199 e 7 da 200 a 500 dipendenti. Inoltre ci sono i dipendenti a tempo determinato, gli stagionali e qui i numeri sono diversificati per ogni anno a seconda dell’andamento stagionale, dei cicli colturali, dei “picchi” di alcune produzioni, tutti aspetti che modificano anche in maniera significativa le giornate che vengono dichiarate.
A Giordano Pascucci, direttore di Cia Toscana, Floraviva ha chiesto un aiuto a orientarsi fra i dati, cogliendone gli aspetti più significativi, e di dire la sua sui temi di attualità: dalla cancellazione dei voucher ai casi di caporalato che hanno toccato anche l’agricoltura regionale.
«L’agricoltura – ha esordito Pascucci - è un settore che dà lavoro, dà occupazione sia a lavoratori autonomi che lavoratori dipendenti. E’ un settore che occupa quasi 100 mila complessivamente solo nella parte primaria, e poi c’è tutto l’agroalimentare. Quindi è un motore di sviluppo, è un settore produttivo che crea occupazione, crea coesione sociale, oltre che contribuire al mantenimento del territorio e dell’ambiente».
Come tipo di occupazione, se non ho letto male i dati, c’è un po’ più sbilanciamento sui lavoratori autonomi rispetto ad altri settori.
«Sì il lavoratore autonomo è un elemento importante, perché sono oltre 22 mila le imprese agricole di lavoratori autonomi e circa 30 mila i soggetti iscritti all’Inps. Chiaramente è una bella forza lavoro se consideriamo che gli occupati dipendenti sono circa 55/60 mila all’anno. Quindi è una quota importante, ma che denota la caratteristica dell’agricoltura toscana, fatta di piccole imprese diffuse nel territorio. La stragrande maggioranza delle 8 mila 300 imprese che hanno dipendenti, vale a dire oltre 6 mila, ha meno di 3 dipendenti, quindi si tratta di realtà medio-piccole dove si utilizza prevalentemente la manodopera familiare e poi ci si aiuta anche con i lavoratori dipendenti. Quelle che invece occupano prevalentemente o esclusivamente manodopera dipendente sono qualche migliaio e importanti, ma comunque anche queste medio-piccole, se paragonate agli altri settori produttivi».
Come sono stati i dati dell’occupazione agricola nel 2016 rispetto al 2015?
«Complessivamente l’agricoltura tiene dal punto di vista produttivo e anche dal punto di vista degli occupati, e in alcuni casi c’è anche una leggera crescita. Dal punto di vista economico il valore dell’agricoltura resta abbastanza stabile, al netto delle crisi congiunturali di alcuni settori tipo i cereali…»
Quanto vale ora il settore agricolo in Toscana?
«2,8 miliardi, più del 2,5% del Pil toscano. A livello nazionale siamo sotto il 2% e a livello toscano siamo tra il 2,5 e il 3%».
Passando ai temi caldi di questi giorni, qual è la posizione di Cia Toscana sulla cancellazione dei voucher?
«E’ stato fatto un errore e un danno per l’agricoltura, che viene penalizzata, una mancata opportunità per alcune categorie. Chi pensa che togliendo i voucher si crea occupazione probabilmente si sbaglia. Chi utilizzava i voucher, che in agricoltura era una percentuale modesta rispetto ad altri settori produttivi e con un uso corretto, rischia di finire nel precariato piuttosto che nella stabilizzazione del rapporto di lavoro».
Cosa vorreste, un ripristino o avete in mente un’alternativa a questo punto?
«Il ripristino mi sembra difficile nel momento in cui c’è una legge che è stata fatta qualche giorno fa. Rimane un’area scoperta. Che alcune attività diciamo stagionali, fatte da studenti, da pensionati, da soggetti che le svolgono solo saltuariamente, vengano inquadrate come lavori dipendenti può darsi che sia possibile, allora però c’è da fare un’altra cosa: semplificare le norme, renderle più snelle e agevoli, perché così come sono oggi scoraggiano un’impresa ad assumere manodopera sia fissa che a tempo determinato stagionale».
Riguardo a fenomeni come il caporalato e altre irregolarità del lavoro, lei ha già sostenuto che per fortuna in Toscana sono minime e inferiori che in altre settori…
«Ci sono dei fenomeni che sono classificati come caporalato, che sono a latere dell’attività agricola perché non sono opera di imprese agricole ma di agenzie d’intermediazione e prestazioni di servizi, che possono essere utili anche per il mondo agricolo, che vanno monitorate evitando che ci sia ogni tipo di sfruttamento dei lavoratori. Però parlare di un fenomeno diffuso di caporalato nella nostra regione mi sembra un po’ eccessivo, perché pochi casi non implicano una situazione del genere. Bisogna piuttosto stare attenti a un altro fenomeno altrettanto preoccupante che è quello delle infiltrazioni malavitose nel settore agricolo, che magari per ripulire denaro sporco preferiscono acquisire imprese e attività anche di prestigio. Quest’area va attenzionata, per cui va bene il protocollo della Regione Toscana, a cui abbiamo aderito e siamo nella cabina di regia, perché crediamo che il monitoraggio sia utile, soprattutto per fare un po’ di concorrenza leale, invece che sleale, per far competere alla pari le aziende rispettose delle regole».
Che cosa proponete alla Regione e al presidente Rossi, con cui avete organizzato l’incontro, in questo ambito?
«Naturalmente la materia del lavoro è normativa di livello nazionale e la Regione può fare poco da questo punto di vista se non con i centri per l’impiego e il protocollo sul caporalato prima citato, però è chiaro che anche nella attività di vigilanza e simili bisogna fare in modo che la Regione faccia sentire la sua voce a livello nazionale e magari ci dia una mano a correggere le norme sbagliate e sproporzionate che non favoriscono l’assunzione di manodopera».
Per Luca Brunelli l’agricoltura ha bisogno di europeismo e un budget comunitario all’altezza; sbagliata la contrapposizione fra piccole e grandi aziende agricole, ma bisogna privilegiare chi vive di agricoltura. Filippo Legnaioli: ora più risorse per favorire l’aumento dei livelli produttivi, a cominciare dall’olio. Enrico Rabazzi: questa Pac è complicata, ci vuole una effettiva semplificazione.
«La Toscana rappresenta e deve continuare a rappresentare un esempio di “buone prassi” nel campo delle politiche agricole e di sviluppo delle aree rurali. Ma ce la possiamo fare solo se affrontiamo i problemi dell’agricoltura e delle aree rurali con impegni che vanno oltre la Pac (Politica agricole comune) ed il Psr (Piano sviluppo rurale); solo se nel nostro paese riparte una stagione di investimenti diffusi nei territori, che rivitalizzino le aree rurali sotto il profilo strutturale, infrastrutturale e dei servizi». Questo richiede maggiore stabilità e certezze sia a livello di governo nazionale che europeo. E ci vuole una Pac con un budget che sia garantito da un bilancio comunitario all’altezza, il che significa credere nell’Europa: l’agricoltura richiede europeismo.
A sostenerlo è stato Luca Brunelli, presidente Cia Agricoltori italiani Toscana, in occasione della Conferenza regionale di Cia su agricoltura e sviluppo rurale e sulla Pac post 2020, che si è tenuta questa mattina a Firenze, nella sala Pegaso della Regione Toscana, con la partecipazione del presidente nazionale Cia Dino Scanavino e dell’assessore all’agricoltura Marco Remaschi, che ha fatto gli onori di casa e preso atto delle proposte di Cia. Una assemblea che precede di due giorni la conferenza economica nazionale di Cia, a Bologna dal 29 al 31 marzo, e di otto giorni la “Conferenza regionale dell’agricoltura e dello sviluppo rurale” della Toscana del 5 e 6 aprile prossimi a Lucca. E dalla quale sono emerse quelle che Cia Toscana considera le tre sfide principali che attendono l’agricoltura nella nostra regione: il reddito, la nuova Pac e l’efficienza del sistema territoriale.
A proposito di reddito, «la competitività delle imprese e del territorio – ha sottolineato Filippo Legnaioli, vicepresidente Cia Toscana - è l’unica strada di sopravvivenza per le aree rurali: non basta ribadire il valore del modello di sviluppo rurale di qualità della Toscana; se non si rilancia la competitività, si rischia di essere velocemente surclassati da altre realtà produttive agricole». Per arrivare ad una redditività accettabile – secondo la Cia Toscana – servono aggregazione, un’economia di scala, strategie commerciali di promozione dell’agroalimentare e una migliore valorizzazione economica e sociale dei territori. «Le risorse importanti messe a disposizione dalla parte pubblica (Europa, Regione o quant’altro) – ha poi aggiunto Legnaioli - bisogna che incomincino a spostarsi significativamente sul settore produttivo. Uno dei problemi che abbiamo nel settore a me più vicino, che è quello olivicolo, è la mancanza di prodotto quando abbiamo invece un mercato, soprattutto internazionale, attento alle dop alle igp, grazie all’ottimo lavoro fatto in passato in Toscana, ma non abbiamo prodotto da vendere. Quindi ora come ora bisogna ritornare a piantare olivi, ma anche vigne». Che tipo di sostegni? «Alle disponibilità economiche per l’acquisizione di nuove superfici agricole, agli acquisti di nuove piante e alla realizzazione di nuovi impianti per produrre olio, vino, perché adesso in Toscana si sta producendo troppo poco». Inoltre ha aggiunto, riguardo alle dop e igp, che è necessario «non moltiplicarle eccessivamente perché presuppongono strutture capaci di promuoverle, di produrle in quantitativi sufficienti, facendo quella massa critica necessaria per stare sui mercati nazionali ed esteri».
La nuova Pac potrà essere un fondamentale strumento di sostegno all’impresa ed al presidio del territorio: «L’agricoltura toscana ha da sempre svolto un ruolo da protagonista nel coniugare agricoltura e ambiente – ha aggiunto Enrico Rabazzi, vicepresidente vicario di Cia Toscana -, ed è in prima linea nella sfida dell’innovazione. Ma non è più accettabile una Pac che, di fatto, penalizza fortemente i territori che maggiormente contribuiscono al presidio ambientale ed allo sviluppo sostenibile. Per questo occorre rilanciare la Pac mantenendo l’attuale budget finanziario, anche in considerazione che non è solo una politica di settore ma puntando ad un cambiamento radicale di indirizzo». C’è necessità, secondo la Cia regionale, di una nuova Pac dinamica, in grado di allargare la platea dei beneficiari, superando le rendite di posizione, nel 1° pilastro come nel Psr, e di sostenere la diffusione delle conoscenze e dell’innovazione. Inoltre di una Pac effettivamente semplificata per gli agricoltori («l’ultima è complicatissima» ha osservato Rabazzi), con norme ed adempimenti proporzionati alle diverse attività e rischi, a partire dalla eco-condizionalità. Sul capitolo Pac, ha detto a Floraviva Luca Brunelli, «abbiamo bisogno di una revisione dei suoi concetti. Noi non possiamo accettare ad esempio il principio della storicità, dove la Toscana oggettivamente perisce, perché su un oliveto in Toscana si prendono 400 euro, nel sud Italia si può arrivare a 8 o 12 mila euro. Questo perché la storicità dei titoli veniva fatta sulla produzione degli anni precedenti, che in Toscana era oggettivata da registri reali, mentre in altre regioni no. Inoltre il concetto della sostenibilità va modificato in funzione del binomio tra impatto ambientale e capacità di reddito nelle aree rurali. Poi abbiamo bisogno di dare una risposta certa a chi di agricoltura ci vive, a chi in agricoltura mette il suo sudore, il suo futuro. Per cui dobbiamo dare una premialità alle vere figure agricole». Infine Brunelli ha criticato recisamente la distinzione fra piccole e grandi aziende agricole, che non riflette necessariamente una migliore redditività e competitività delle seconde.
La terza e ultima sfida da vincere è quella di un sistema-territorio che sia efficiente e competitivo: l’efficienza, la competitività e la qualità della vita del territorio, infatti, sono punti strategici per la sua valorizzazione, identità ed affermazione. Un nuovo dinamismo dei territori e delle istituzioni locali, a partire dalla loro interlocuzione positiva con il sistema delle imprese; ma anche un sistema amministrativo efficiente».
La Regione Toscana, afferma il documento di Cia, ha messo in campo un’azione legislativa importante, attraverso percorsi partecipativi e di condivisione non comuni nel contesto politico generale: dalla disciplina urbanistica al tanto discusso piano paesaggistico; dalla Legge obiettivo sul riequilibrio faunistico alle norme sulla multifunzionalità (agriturismo, agricoltura sociale, bonifiche). «Ma fare impresa agricola – conclude Cia Toscana - resta un percorso ad ostacoli: bene ad esempio la nuova disciplina urbanistica, ma si rischia la disapplicazione da parte di molti Comuni; sull’ambiente, c’è un labirinto di vincoli, adempimenti, scadenze di pagamento di numerosi tributi da tenere sotto controllo, al quale non si accompagna una vera ed efficace politica ambientale attiva, in grado di valorizzare e premiare i fattori ad esternalità positiva dell’agricoltura. Resta poi l’emergenza nella gestione faunistica: nonostante i primi risultati siano incoraggianti siamo ancora in emergenza. Servono infine sostegni al welfare nelle aree rurali».
Il coordinatore di Agrinsieme Mercuri (Confcooperative): la Pac deve andare ad aziende strutturate e capaci di diventare competitive e bisogna spostare parte delle risorse sui piani nazionali. Giovanni Luppi (Legacoop): il fatturato della cooperazione agroalimentare vale 37 miliardi, il 31% dell’intero agroalimentare italiano, ma può salire perché il prodotto agricolo che transita nella cooperazione è sotto la media europea. Cinzia Pagni (Cia): più aggregazioni anche fra le cooperative di produzione agricola, come è stato per quelle della distribuzione. L'assessore Remaschi: necessario un cambio di mentalità, ma dai Pif toscani un segnale positivo.
Le agevolazioni fiscali arrivate all’agricoltura in questa legislatura sono un importante aiuto per superare la crisi, ma poi «le nostre aziende non potranno fare reddito se non acquisendo più quote di mercato». E la Politica agricola comune (Pac) va riorientata: «le risorse devono andare alle aziende agricole che possono diventare competitive», quelle più grandi e strutturate, «la chiusura di tante aziende agricole è dovuta a una Pac che non ha dato finora gli aiuti giusti»; inoltre, sempre nella logica di aiutare chi sa mettere a frutto gli aiuti, bisogna spostare una parte delle risorse su piani di livello nazionale.
Questo, in sintesi, il messaggio di Giorgio Mercuri, coordinatore nazionale di Agrinsieme e presidente di Fedagri – Confcooperative nonché dell’Alleanza delle cooperative agroalimentari, alla tavola rotonda “Dalla politica della cooperazione alla politica per la cooperazione” che si è svolta ieri a Firenze in chiusura delle due giornate di studi organizzate da Accademia dei Georgofili e Agrinsieme sul tema “Cresce la cooperazione agroalimentare, cresce l’agricoltura”. Alla tavola rotonda, moderata dal giornalista Marzio Fatucchi, sono intervenuti anche l’assessore all’agricoltura della Toscana Marco Remaschi, la vicepresidente di Cia – agricoltori italiani Cinzia Pagni, il presidente di Legacoop agroalimentare e copresidente dell’Alleanza delle cooperative agroalimentari Giovanni Luppi, il presidente di Copagri Franco Verrascina e il presidente della commissione Agricoltura Luca Sani (vedi articolo di ieri).
«Noi siamo convinti – ha aggiunto Giorgio Mercuri - che il futuro della Pac può essere in parte orientato sugli aiuti diretti: probabilmente quelli relativi alla parte ambientale. E in parte invece deve essere fortemente orientato sugli investimenti, quindi sul secondo pilastro, perché così mette in condizione le aziende di poter investire e potersi innovare». La Pac, per Mercuri, non deve abbandonare i contributi a fondo perduto, come vorrebbero alcuni in Europa, e deve indirizzarsi «a favore delle grandi aziende, perché questo significa stimolare le aziende a mettersi insieme per poter portare a casa risorse importanti». La richiesta del mondo della cooperazione di girare più risorse dal livello regionale a quello nazionale, ha chiarito Mercuri, non significa però spostare tutto sui piani nazionali, «perché abbiamo situazioni diverse da una parte all’altra del Paese». Mercuri ha poi invitato i produttori della filiera agroalimentare a rivolgersi ad Agrinsieme per far valere le proprie istanze, perché è più efficace ragionare in termini di agroalimentare che solo di agricoltura, pensando al completamento della filiera, «sia attraverso le cooperative che confrontandosi con l’agroindustria». E a questo proposito ha affermato «la necessità che i ministeri dello sviluppo economico e dell’agricoltura non si incontrino solo occasionalmente».
Portando i saluti della Regione Toscana, l’assessore all’agricoltura Marco Remaschi ha sostenuto che per «aumentare il reddito e garantire l’accesso ai mercati alle nostre produzioni» agricole «c’è bisogno di innovazioni di prodotto e di processo». E ciò implica fra l’altro favorire tutte le forme di aggregazione in agricoltura, dall’integrazione orizzontale fra produttori a quella verticale lungo le filiere produzione-mercato, per superare il limite del sottodimensionamento aziendale. «La via è quasi scontata – ha detto Remaschi -. Ci siamo arrivati? No, abbiamo bisogno di lavorare ancora a un cambio di cultura dei nostri operatori agricoli». Ma i segnali positivi ci sono stati, secondo l’assessore, come testimoniato dalle risposte ai bandi regionali su pif (progetti integrati di filiera) in cui si è registrata «una maggiore capacità di mettersi insieme».
Cinzia Pagni, vicepresidente di Cia, ha affermato che nonostante un calo del reddito dell’8%, contro un -2% medio in Europa, dall’inizio della crisi, gli agricoltori «si sono dimostrati resilienti di fronte alla crisi». Resta però il punto debole della «scarsa propensione ad aggregarsi, quando invece, in una situazione di crisi in cui i mercati esteri sono fondamentali, ci sarebbe bisogno di più aggregazione e cooperazione». Per Cinzia Pagni «l’aggregazione del modello cooperativo può garantire un futuro migliore all’agricoltura» e «la cooperazione può dare più risposte agli agricoltori, purché ci siano aggregazioni anche al livello della produzione, delle cooperative di produzione, come è successo nella distribuzione». Sui piani di sviluppo rurale e i pif, la vicepresidente di Cia ha chiesto un’ulteriore sburocratizzazione. Infine ha auspicato una strategia di Paese sull’export, perché anche se qualcosa è stato fatto, non è sufficiente, e i grandi gruppi italiani non possono farcela da soli a presidiare il nostro sistema agroalimentare.
Il presidente di Legacoop agroalimentare, nonché copresidente dell’Alleanza delle cooperative agroalimentari, Giovanni Luppiha ricordato alcuni numeri. «Nel settore cooperativo agroalimentare – ha detto – sviluppiamo 37 miliardi di fatturato, su un fatturato totale dell’agroalimentare italiano di 120 miliardi». Si tratta di una quota del 31%, ma che può essere incrementata alla luce di altri dati. Basti pensare che mentre «in Europa la percentuale di prodotto agricolo che passa per la cooperazione supera il 60%», in Italia non si arriva al 40%. Luppi si è soffermato poi su un altro confronto di dati: il numero delle aziende agricole in Italia nel censimento del 1948, pari a 17 milioni, e quello del 2010, pari a 1 milione e 600 mila imprese agricole, e «probabilmente – ha chiosato - le imprese agricole vere oggi saranno non più di 600/700 mila». Questo significa, ha argomentato, che «c’è un apparato di riferimento, composto da cooperazione, organizzazioni professionali e altri strumenti che mi sembra francamente sovradimensionato rispetto al numero di aziende» e che dovrà in parte cambiare, anche per altre ragioni. «Quando eravamo nel Dopoguerra – ha detto Luppi a Floraviva dopo la fine dell’incontro - l’impresa agricola aveva bisogno sostanzialmente che la cooperativa provvedesse a tutti i suoi bisogni: il ritiro del prodotto, la commercializzazione del prodotto. Oggi siamo di fronte ad imprenditori agricoli molto più dimensionati che posso fare un pezzo del mestiere a casa loro. Le faccio un esempio: nel settore della frutta si possono andare a raccogliere, che so, le mele a casa del produttore, portarle in cooperativa, lavorarle e poi venderle, ma ci possono essere altri modelli in cui il produttore agricolo la confezione delle mele se la fa a casa e dà alla cooperativa da vendere le sue confezioni; vuol dire che si è trattenuto un pezzo di plusvalore a casa propria». Infine, questa è la sua visione di come nella filiera agroalimentare si possa arrivare a dare più reddito agli agricoltori: «più organizzazione in tutti i pezzi della filiera: intanto organizzazione a casa delle imprese agricole, che in Italia rimangono sottodimensionate e quindi gravate di costi anche perché piccole; a valle, la cooperazione o l’impresa di trasformazione del prodotto agricolo deve raggiungere modelli di efficienza più alti degli attuali, questo è inevitabile. Imprese moderne dimensionate possono affrontare con più capacità i temi che attengono all’innovazione di prodotto, oggi fondamentale per stare sul mercato, e il tema di raggiungere mercati fuori dall’Italia. Noi abbiamo in Italia produzioni agricole, le faccio il caso del vino, dell’ortofrutta e dell’olio d’oliva, che sono eccedentari rispetto ai consumi interni. Se non avessimo le condizioni per esportare queste produzioni sui prezzi sarebbe un disastro. Bisogna avere questa capacità di portare fuori all’estero le nostre produzioni eccedentarie».