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Luca Sani: le denominazioni e altri sistemi di tracciabilità danno risultati perché il consumatore è esigente; i distretti del cibo ampliano le possibilità dei distretti rurali. Luca Brunelli: le Dop e Igp garantiscono riconoscibilità nei mercati globali. Il presidente di Unioncamere Toscana: più integrazione con l’industria di trasformazione per far crescere le Ig pure in quantità. Per Pascucci: in Toscana possiamo aumentare i prodotti certificati e i loro livelli produttivi; l’integrazione agroindustriale è ok, purché si conservino qualità dei prodotti e remunerazioni degli agricoltori. Scanavino: le Ig sono irrinunciabili soprattutto per regolare le produzioni, ma la svolta commerciale sono le app che raccontano i prodotti e i negozi virtuali tipo “Spesa in campagna” su Amazon; l’integrazione della filiera non deve riguardare solo l’industria della trasformazione e la gdo, ma anche i piccoli artigiani e commercianti.
La competitività agricola è stato uno dei fili conduttori dell’assemblea di Cia Toscana dell’8 febbraio in cui è avvenuto la conferma alla presidenza regionale di Luca Brunelli (vedi nostro articolo). Di competitività ha parlato il rieletto, ma anche l’assessore toscano all’agricoltura Marco Remaschi. Quest’ultimo ha indicato come variabili decisive sulla strada verso un’agricoltura più concorrenziale: un deciso snellimento burocratico, la valorizzazione della qualità delle produzioni agricole, il ricambio generazionale e l’aggregazione attraverso vari strumenti, dai progetti integrati di filiera ai distretti.
Floraviva ha provato a capire con alcuni esponenti di vertice del settore agricolo e non solo, sia a livello istituzionale che fra i rappresentanti della Confederazione italiana agricoltori, quali siano a loro avviso le vie preferenziali per la competitività. A partire dalle Indicazioni geografiche, Dop e Igp, ovviamente, sul cui impatto è uscito nemmeno un mese fa un rapporto Ismea (vedi nostro articolo) che ha dimostrato che vanno meglio del resto dell’agricoltura, anche se in molti casi restano di nicchia, con scarsi volumi. Ma pure per altre vie citate nel corso dall’assemblea, quali i distretti rurali o del cibo, migliore integrazione della filiera e in particolare fra agricoltura e industria della trasformazione, o anche l’uso di nuovi canali promozionali e di vendita come Amazon e le app degli smartphone.
Sentito al volo in una pausa dell’assemblea il neo presidente di Cia Toscana Luca Brunelli ha detto che «affrontiamo le sfide della globalizzazione, vogliamo esserne protagonisti, ma c’è tanto da fare. Abbiamo bisogno di mettere in fila tutti quegli elementi che sono collegati direttamente al nostro reddito agricolo. Le nostre imprese vanno sostenute sul commercio, ma vanno sostenute soprattutto sui servizi. […] Le nostre aziende oggi sono collegate col web nel mondo, ma lo sono solo se hanno una rete. Quindi dobbiamo mettere in condizione le aree rurali e l’agricoltura di essere competitive nel mondo, di avere le stesse condizioni dei nostri competitor, come la Francia e la Germania. L’agricoltura accetta la sfida di avere un impatto ambientale inferiore: lo fa all’interno della Pac, lo fa all’interno di scelte imprenditoriali. Noi sappiamo che l’innovazione oggi ci aiuta in questo: abbiamo un’innovazione possibile e quindi siamo convinti che la competitività delle aziende toscane non è in discussione». Per Brunelli «l’invenzione, la voglia di avere le denominazioni» nasce della volontà dell’agricoltore, «che ha lavorato coi muscoli ma anche di testa. Oggi è una risposta che sul vino ha dato e sta dando notevoli successi, va trasferita quell’esperienza sulle altre realtà. […] Io credo che la direzione che abbiamo preso in questa regione delle Dop e delle Igp sia una direzione che va continuata ed è l’unica che ci permette di essere ancora competitivi nel mondo. La qualità è l’unico elemento che può garantirci la differenziazione nel mondo globale. E nel mondo hanno bisogno di prodotti che si differenziano e che siano garantiti dalla loro qualità di processo, dal percorso che fanno, e anche nella qualità oggettiva che i nostri prodotti hanno chiaramente».
Il presidente di Unioncamere Toscana Riccardo Breda, che nel suo intervento si è soffermato sul nuovo Distretto agroalimentare della Toscana del Sud e ha invocato una migliore integrazione fra agricoltura e trasformazione agroindustriale, ci ha poi detto che tale integrazione è assolutamente compatibile con la tipicità delle Dop e Igp e «anzi forse può far crescere anche le dop e le igp, perché si va bene sul vino, prodotto che ha alzato il suo livello di qualità in Toscana grazie agli investimenti dei grandi produttori che hanno fatto sì che anche i piccoli produttori lavorassero per l’eccellenza e per la qualità. […] Questo deve avvenire anche per l’agroalimentare, cioè le piccole trasformazioni di grande qualità che abbiamo in Toscana possono essere aiutate anche attraverso un percorso di investimento nell’agroindustria e la trasformazione di massa. Noi in Toscana abbiamo un grande prodotto di nicchia, va esportato di più e fatto conoscere meglio all’estero, ma abbiamo bisogno anche della quantità. Questo può servire anche a far sì che in agricoltura si vadano ad attivare quei percorsi di produzione per quello che richiede il mercato della trasformazione. Ciò può portare ricchezza nell’agricoltura, perché permette di avere un accordo diretto, che ad esempio il Distretto agroalimentare della Toscana del Sud prevede, fra il produttore e il trasformatore. Quindi un’agricoltura diversa, più mirata per il settore di trasformazione e più di qualità anche in termini economici». «Bisogna valorizzare quello che abbiamo – ha precisato - non chiuderlo e fare cose diverse». E sui distretti del cibo ha detto che «l’idea è quella di mettere insieme oltre all’agroalimentare anche il turismo e il commercio perché così si riescono a commercializzare i prodotti e i cibi del territorio. Quindi fare filiera nell’ambito del distretto agroalimentare e promuovere attraverso il cibo (che in Toscana, assieme al paesaggio, è conosciuto in tutto il mondo come valore aggiunto) è un’opportunità straordinaria per il settore agricolo. Quindi distretti del cibo insieme ai distretti agroalimentari».
Per Luca Sani, presidente della Commissione agricoltura alla Camera nell’ultima legislatura, il tema delle Ig e di altre forme di valorizzazione dei prodotti agroalimentari va inquadrato così: «noi abbiamo un consumatore sempre più esigente. Non solo nei confronti della qualità del prodotto alimentare, ma anche di come viene prodotto, della zona di provenienza ecc. Da questo punto di vista le denominazioni di origine e le indicazioni geografiche sono fondamentali. Ma non solo. Anche tutti quei sistemi di tracciabilità, naturalmente riconosciuti per legge, che possono orientare meglio il consumatore nella scelta si vede che stanno dando buoni risultati. Questa è la strada da perseguire. Logicamente ci sono i prodotti rispetto ai marchi riconosciuti dall’Unione europea ma ci sono anche altre cose che possono essere comunque legate a una loro tracciabilità. Il Ministero dell’agricoltura italiano ha scelto la strada dell’etichettatura volontaria per esempio su alcuni prodotti. Latte, cereali, presto sul pomodoro, proprio per seguire e sostenere questa politica e per tutelare le due ali estreme della filiera: il consumatore e l’agricoltore». E che cosa aggiungono i distretti del cibo a quelli rurali che già esistono? «Hanno un panorama e un ventaglio più ampio di applicazione – risponde Sani -. Possono riguardare ad esempio il rapporto fra produzione e distribuzione nella ristorazione collettiva. Un distretto del cibo può nascere, per esempio, attorno alle politiche di una grande città sulla ristorazione collettiva legata a una scelta di qualità e di filiera corta con i produttori agricoli o in un rapporto fra i produttori e ristorazioni in realtà turistiche. Quindi allarga le possibilità di intervento. Per cui mentre sui distretti rurali prevale l’elemento agricolo e rurale sui distretti del cibo c’è una possibilità in più sempre in funzione di un rafforzamento agricolo».
Il direttore di Cia Toscana Giordano Pascucci afferma: «il dato delle denominazioni di origine è un dato positivo, noi numericamente ne abbiamo molte, però a differenza di altre realtà dell’agroalimentare italiano abbiamo dimensioni più piccole. Una denominazione come Grana Padana, Parmigiano Reggiano o prosciutto di Parma ha un dimensionamento produttivo molto importante. Noi, a partire dal prosciutto toscano o dal pecorino toscano, abbiamo una produzione molto più modesta: qualitativamente ci siamo, ma quantitativamente sono dimensioni più modeste. Quindi dobbiamo cercare intanto di fare in modo che la produzione arrivi ad essere certificata: quindi che il pecorino diventi pecorino toscano dop e questo è un primo passo, che è quello di accrescere nella filiera la certificazione e arrivare alla commercializzazione di un prodotto come marchiato dop. E questo è un primo problema che riguarda tutta la filiera: chi trasforma, chi distribuisce e a cascata anche il mondo agricolo e il mondo allevatoriale che deve essere pronto a raccogliere questa opportunità. Dall’altro c’è sicuramente un problema di ampliamento dei livelli produttivi di queste denominazioni. E qui scontiamo un dimensionamento produttivo che è molto piccolo». E sulla maggiore integrazione con l’industria della trasformazione è d’accordo con Breda? «Sì, è una posizione anche nostra, che è quella di mettere in maggiore connessione il mondo della produzione con quello della trasformazione agroalimentare, laddove l’agroalimentare ha una marcia in più dal punto di vista della penetrazione dei mercati e dell’export, e quindi della capacità competitiva, se noi riusciamo a mettere in connessione tutto l’agroalimentare che si può produrre in Toscana, sicuramente è un bel risultato. Poi si pongono le questioni della qualità del prodotto, che in parte c’è in parte no, della remunerazione del prodotto e della distribuzione della catena del valore. Però come idea è molto interessante».
Infine il presidente di Cia nazionale Dino Scanavino: «Le dop e le igp sono ad oggi lo strumento più sicuro per certificare la produzione, cioè l’origine della materia prima, l’attinenza ai disciplinari di produzione e lo scorrere ordinato dei processi che vanno dalla produzione della materia prima fino al momento del consumo. Quindi è uno strumento irrinunciabile per affermare la distintività delle produzioni tipiche italiane, in tutte le regioni d’Italia. Il fatto che vi siano dop con piccole produzioni è un problema nazionale antico. E’ un problema che però a volte non incide sulla redditività dei produttori che stanno all’interno delle dop. Ci sono dop di formaggi che sono estese a 8-10-20 comuni che però danno valore aggiunto alla produzione e quindi per noi va bene». «Oggi – ha aggiunto però Scanavino - noi abbiamo degli strumenti innovativi che mettono in contatto i consumatori con i produttori attraverso applicazioni informatiche a distanza che tramite barcode o smartphone raccontano che cosa c’è in un prodotto, la faccia del produttore, ecc. Questi strumenti non vanno sottovalutati, perché io non dico che possono sostituire le Dop e le Igp ma possono enfatizzarne il valore, lasciando il sistema di certificazione più come strumento per regolare la produzione e spostando più su elementi emozionali il rapporto con i consumatori». Quindi puntare di più sulla digitalizzazione? «Esatto». Anche con Amazon? «Anche con Amazon. Noi peraltro lavoriamo già con Amazon perché abbiamo un accordo per la “Spesa in campagna”, cioè abbiamo un negozio virtuale dei piccoli produttori di “Spesa in campagna” sulla piattaforma Amazon. Noi non abbiamo nessun problema ad affermare che il commercio telematico sarà il futuro […] Si tratta di trovare anche all’interno di questi strumenti dei contenitori che esaltino la tipicità, mettano in evidenza il produttore e il prodotto, quello che il produttore ha fatto per fare un prodotto di quella qualità». Infine, sulla maggiore integrazione con l’industria della trasformazione Scanavino dice: «credo in questa strada, ma penso che ci sia un elemento di complessità da approfondire. Io credo che gli agricoltori, gli artigiani e i commercianti, non la grande distribuzione, debbano trovare una forma per aumentare il loro potere contrattuale all’interno della filiera agroindustriale. Cioè la filiera agroindustriale non è fatta solo da produttori di materia prima – trasformatori – grande distribuzione. Ci sono più soggetti, che a volte sfuggono anche alla statistica. Se noi gli agricoltori, gli artigiani e i piccoli commercianti provassimo a strutturare un piano di collaborazione che sulla filiera agroindustriale ci veda uniti, noi avremmo più forza rispetto all’agroindustria». Quindi più attenzione a tutta la filiera? «Sì, perché noi dobbiamo rafforzare il nostro potere contrattuale all’interno di essa, perché se no la filiera agroindustriale andrà pure bene, i prodotti saranno buoni, le Dop terranno, ma noi guadagneremo ancora poco».
Lorenzo Sandiford
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Solo il 53% delle aziende del Distretto vivaistico ornamentale di Pistoia ha un business plan, fondamentale per accedere al credito. Francesco Ciampi «il valore dell’export al 54% è un segno di vitalità». Vannino Vannucci: c’è bisogno del sostegno bancario a tutte le imprese della filiera, incluse le piccole. Tra il 2016 e il 2017 solo il 15% delle aziende piccole e il 4% delle medie registra cali di fatturato. Il 55% delle piccole accetta tempi di pagamento sopra i 180 giorni e il 71% dei vivaisti si basa spesso su accordi verbali.
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A Firenze presso i Georgofili, nella giornata di studio sulla “gestione del rischio in agricoltura”, tavola rotonda con l’assessore Remaschi («il numero di polizze è basso anche per gli eccessi burocratici»), Mauro Serra Bellini del Mipaaf, Antonio Dosi di Agrinsieme («neanche 80 mila aziende assicurate su 280 mila aziende vere e 1 milioni di fascicoli per i contributi Ue»). Massaini (Ass. Vivaisti Italiani): «poche polizze nel vivaismo anche per premi assicurativi troppo alti». Girotti (Ania) «con produzioni così varie e senza dati è difficile calcolare il rischio e la valutazione può essere un po’ penalizzante».

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La conferma di Luca Brunelli a Firenze durante la 7^ assemblea regionale di Cia – Agricoltori Italiani Toscana, che con 22mila aziende e 90mila associati vale il 40% della rappresentanza agricola regionale. Il neo presidente: «c’è bisogno di semplificazione, la cultura della burocrazia è dura a morire». Dino Scanavino: «la Cia è impegnata per le OP partecipate e controllate dagli agricoltori».
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Nel Rapporto 2017 Ismea-Qualivita sulle Dop e Igp i record e gli effetti economici del made in Italy agroalimentare certificato. Ma in due incontri all’Accademia dei Georgofili i riflettori sulle evoluzioni delle IG e su nuove vie per la valorizzazione: menzioni territoriali più circoscritte per i vini, il “prodotto di montagna”, i “distretti del cibo”, la caratterizzazione nutraceutica.
Il “Rapporto 2017 Ismea-Qualivita sulle produzioni agroalimentari e vitivinicole italiane Dop, Igp e Stg”, presentato due settimane fa, ha ribadito con chiarezza il ruolo del sistema delle indicazioni geografiche (IG), in cui l’Italia ha il primato mondiale con 818 riconoscimenti e la Toscana il primo posto nazionale con 91, quale efficacissimo mezzo di valorizzazione dei nostri prodotti enogastronomici. Ma non ci si può cullare sugli allori, perché altri Paesi stanno puntando su approcci più mirati e innovativi entro quel sistema, e perché si stanno sviluppando nuove vie e strumenti per la valorizzazione agroalimentare del made in Italy, anche al di fuori dell’universo IG.
Questo almeno è il quadro della situazione emerso nei due incontri organizzati nei giorni scorsi dall’Accademia dei Georgofili di Firenze: nel quarto appuntamento del progetto “I territori della Toscana e i loro prodotti” (25 gennaio), con riferimento in particolare alle relazioni del consigliere regionale Marco Niccolai (che si è soffermato sui distretti del cibo), del docente di Economia agraria dell’Università di Firenze Giovanni Belletti (La valorizzazione collettiva dei prodotti tipici: opportunità e problematiche) e della direttrice del Centro Nutrafood - Nutraceutica e alimentazione per la salute dell’Università di Pisa Manuela Giovannetti (Caratterizzazione salutistica dei prodotti tipici per la loro valorizzazione); e nell’incontro sul tema “Denominazioni, cultura territoriale e qualità dei vini italiani” con lo storico Zeffiro Ciuffoletti, che ha introdotto l’argomento, Bernardo Conticelli (Uno sguardo alla Francia e all’Europa) e Piero Tesi per le considerazioni finali (31 gennaio).
Il dato del Rapporto 2017 Ismea-Qualivita che riassume meglio l’efficacia del sistema Dop e Igp, come messo in evidenza sul Sole 24 Ore del 23 gennaio 2018, è il +140% dell’export di questi prodotti certificati nei dieci anni dal 2007 al 2017, un tasso di crescita molto più alto rispetto al già ottimo risultato delle esportazioni agroalimentari complessive (sulle quali proprio recentemente il ministro delle politiche agricole Maurizio Martina ha annunciato che nei primi 11 mesi del 2017 si è arrivati a quota 37,6 miliardi di euro, +7% sul 2016). Ma ecco una sintesi del Rapporto Ismea sull’universo IG: «il comparto esprime i risultati più alti di sempre anche sui valori produttivi, con 14,8 miliardi di valore alla produzione, e 8,4 miliardi di valore all'export. Dati che testimoniano una crescita del +6% su base annua e un aumento dei consumi nella gdo del +5,6% per le vendite Food a peso fisso e del +1,8% per il Vino. Il settore Food, che nel 2016 conta 83.695 operatori (+5% sul 2015), vale 6,6 miliardi di euro alla produzione e 13,6 miliardi al consumo, con una crescita del +3% sul 2015, con l'export che continua a crescere (+4,4%) e un trend che nella Grande Distribuzione supera il +5,6% per il secondo anno consecutivo. Il comparto Wine - oltre 3 miliardi di bottiglie - vale 8,2 miliardi di euro alla produzione con una crescita del +7,8% e sfiora i 5 miliardi di valore all'export (+6,2%)». Questi risultati, ha dichiarato il direttore generale di Ismea Raffaele Borriello, «confermano il successo di un modello produttivo tipicamente italiano che fa perno sulla qualità, sulla distintività e sulla valorizzazione dei prodotti tipici e dei saperi locali. L'apprezzamento sui mercati esteri, principale volano di sviluppo nel nostro sistema delle Indicazioni Geografiche, cresce a ritmo esponenziale». (vedi Ismea)Come ha sottolineato Giovanni Belletti il 25 gennaio all’Accademia dei Georgofili, spiegando a Floraviva il “circolo virtuoso della valorizzazione”, «le indicazioni geografiche e gli strumenti di identificazione della qualità collettivi sono molto importanti, perché sono un elemento di condivisione di regole: dietro una indicazione geografica o una Dop o un marchio collettivo geografico c’è un sistema di regole che i produttori condividono, il quale è importante per evitare forme di concorrenza non corretta e far sì che tutti seguano le metodiche tradizionali o comunque concordate. Sono ovviamente fondamentali anche per i consumatori, che si devono sentire garantiti dal segno di qualità: non c’è un segno di qualità efficace se non c’è una garanzia della rispondenza del prodotto alle regole». Belletti si è poi soffermato su due novità per l’Italia in materia di valorizzazione agroalimentare: il marchio “prodotto di montagna” e i “distretti del cibo”. In particolare sul primo ha detto che «è una forma di etichetta che è stata istituita dall’Unione europea ormai da qualche anno, ma che in Italia è diventata operativa dall’anno scorso. Questa dizione può essere utilizzata dai produttori che garantiscano attraverso un sistema interno di tracciabilità la provenienza delle materie prime da un’area classificata come montana secondo le normative europee. E’ una menzione aggiuntiva di qualità, non va confusa con Dop o Igp, ma può accompagnare un marchio territoriale». Ma avrà un valore aggiunto? «Sì – ha risposto Belletti - perché è stato dimostrato da studi dell’Unione europea, prima di procedere all’istituzione del marchio, che il consumatore europeo (e anche quello italiano) riconosce un di più ai prodotti di montagna, che sono percepiti come più sani, più autentici e per questo ne è stato regolato l’uso e non può essere più usata tale dizione al di fuori dello schema comunitario». Come ha twittato il ministro Martina il 2 febbraio scorso, il marchio “prodotto di montagna” sarà lanciato entro la fine del mese.
Riguardo ai distretti del cibo, Belletti ha ricordato che «il distretto del cibo è una nuova forma di organizzazione territoriale promossa recentemente attraverso disposizioni nazionali, che si accompagna a quella dei distretti rurali e dei distretti agroalimentari di qualità, che però sposta di più l’attenzione dal tema della produzione in quanto tale al tema del funzionamento del sistema agroalimentare locale». Sui distretti del cibo Marco Niccolai ha detto che sono «il riconoscimento di un’esperienza che in Toscana c’è già: quella dei distretti rurali» e che «l’intervento del Governo è importante perché riconosce il distretto come capacità dell’insieme di un settore, sia la produzione sia la trasformazione, di fare rete, e riconosce anche un finanziamento». Di quanto si tratta? Come è spiegato nel comunicato del Ministero delle politiche agricole (Mipaaf) del 22 gennaio sono «5 milioni di euro per il 2018 e 10 milioni di euro a decorrere dal 2019». Il Mipaaf ricorda che «il riconoscimento dei Distretti viene affidato alle Regioni e alle Province autonome che provvedono a comunicarlo al Mipaaf presso il quale è istituito il Registro nazionale dei Distretti del Cibo, disponibile sul sito del Ministero».
Un’ulteriore forma di valorizzazione aggiuntiva dei prodotti agroalimentari, che fuoriesce dai confini delle IG, è la caratterizzazione dei loro valori nutraceutici, come ha spiegato sempre il 25 gennaio presso i Georgofili Manuela Giovannetti, docente di Microbiologia agraria e alimentare, oltre che direttore del Centro interdipartimentale “Nutrafood” dell’Università di Pisa. Manuela Giovannetti ha illustrato in che cosa consiste la nutraceutica (che studia le sostanze con effetti benefici sulla salute) e quale può essere il suo valore aggiunto nella promozione dei prodotti tipici, esaminando in particolare il caso del mirtillo della montagna pistoiese e poi lanciando la proposta di fare una caratterizzazione nutraceutica del fagiolo di Sorana, di cui «non sappiamo il valore antiossidante né il contenuto di polifenoli» (vedi nostro articolo).
Il 31 gennaio, invece, nell’affrontare le denominazioni di origine e la qualità dei vini in Italia e nel resto d’Europa, a cominciare da Francia e Spagna, i relatori invitati dall’Accademia dei Georgofili hanno perorato la causa di ancorare sempre di più i nostri vini certificati, come ha detto Piero Tesi, a «indicazioni territoriali specifiche in funzione dell’ambiente di produzione, fino ad arrivare alla denominazione aziendale». «Viviamo un mercato del vino in continua evoluzione – ha detto il prof. Zeffiro Ciuffoletti -, noi siamo ormai diventati da esattamente 10 anni i maggiori produttori del mondo come esportatori, però nello stesso tempo abbiamo un ritorno monetario sul vino che vendiamo all’estero inferiore a quello della Francia. Qual è il problema? Il problema è che i vini francesi vengono pagati di più». «Il motivo, detto in soldoni, - ha aggiunto Ciuffoletti - è che sono più conosciuti. A volte però questo non è soltanto legato alla qualità, ma al fatto che la Francia è stata capace di consolidare nel tempo le sue posizioni sui mercati mondiali, e anche a una definizione migliore dei vini francesi, che sono sempre di più a taglia stretta, con zone di produzione ben circoscritte e differenziate. E la stessa strada la stanno prendendo gli spagnoli».
La quantificazione di questo gap competitivo fra Italia e Francia l’ha fornita al cronista di Floraviva Bernardo Conticelli al termine dell’incontro: «sull’imbottigliato secco mi sembra che siamo sui 3 euro e 20 l’Italia e sui 5,30 la Francia; mentre sulle bollicine siamo a 3 euro e qualcosa l’Italia e 18,50 euro la Francia con lo Champagne». Una differenza di prezzo che, almeno escludendo le bollicine, non rispecchia una differenza di qualità, per Conticelli, che afferma: «sulla fascia dei vini di prezzo medio l’Italia è nettamente superiore in qualità alla Francia» e la differenza di prezzo fra vini francesi e italiani dipende dal «valore aggiunto che la Francia riesce a trasmettere». Evidentemente i francesi si muovono meglio sul mercato e anche nelle politiche relative alle denominazioni di origine. «La Francia nel 2008 quando c’è stato a livello europeo il passaggio del vino alle denominazioni di origine Dop e Igp – ha spiegato Conticelli - aveva un numero di denominazioni più o meno simile al nostro, ma l’ha rivisto completamente, per cui è scesa da oltre 400 Aoc (che sono le nostre doc e docg) a 377 e soprattutto sulle Igt ha fatto un grandissimo lavoro di rielaborazione (alcune sono state eliminate, alcune sono state raggruppate) per cui si è passati da 150 a 75 Igt (che sono poi chiamate Igp in Francia). Sempre di più i consumatori sui mercati internazionali, almeno i consumatori un pochino più avanzati, ricercano il fascino della provenienza, dell’origine del vino nel dettaglio più grande possibile». Cosa dovremmo fare in Italia per cogliere questo trend e circoscrivere gli ambiti territoriali sull’esempio francese? «Gli strumenti sono tanti – ha risposto Conticelli - e chiaramente sono in seno ai consorzi di tutela […] Ad esempio il Chianti classico potrebbe rimandare a menzioni territoriali quali possono essere i Comuni principali del territorio (Panzano, Greve, Castellina in Chianti, ecc.) che hanno oggettivamente delle differenziazioni nelle tipologie di vino prodotto». Dunque delle menzioni geografiche aggiuntive che finiscano in etichetta e riportino il consumatore a determinate zone, «ovviamente zone di maggior prestigio».
Lorenzo Sandiford