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Il borgo della Valdinievole si unisce alla rete nazionale per il decoro urbano e la sostenibilità, promuovendo fiori e bellezza come linguaggio per il benessere e il turismo di qualità.
Anche Massa e Cozzile, nel cuore della Valdinievole e della provincia di Pistoia, aderisce ufficialmente all’Associazione nazionale Comuni Fioriti, rafforzando l'impegno per il verde pubblico, il decoro urbano e la qualità della vita. Un gesto concreto che parla il linguaggio universale dei fiori e delle piante e si inserisce nel solco di una tradizione attiva e riconosciuta anche da Floraviva, premiata da Comuni Fioriti nel 2021 come media partner per il sostegno informativo e culturale all’iniziativa.
«Siamo orgogliosi di entrare a far parte dei Comuni Fioriti – ha affermato il sindaco Marzia Niccoli – perché crediamo nel valore del verde e nella cura del paesaggio urbano come elemento distintivo della nostra comunità». Un’adesione che va oltre l’estetica, abbracciando la visione di un ambiente più vivibile, sostenibile e partecipato.
Massa e Cozzile parteciperà al concorso nazionale Comuni Fioriti, che ogni anno premia le amministrazioni più virtuose per l’attenzione al paesaggio, al coinvolgimento civico e alla promozione del territorio. Saranno avviate campagne di sensibilizzazione, progetti di abbellimento e attività in sinergia con scuole, associazioni e cittadini, in un percorso che mira a fare del verde un motore di coesione sociale e attrattività turistica.
Con questo ingresso, il comune si unisce a una rete di oltre 180 realtà italiane che hanno scelto di investire nei valori della bellezza, dell’ospitalità e dell’identità locale, confermando quanto i fiori possano diventare un simbolo tangibile di impegno civico e visione sostenibile.
Andrea Vitali
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Due elettrodi, una radice e una foglia: così le piante rivelano il loro mondo invisibile. Jean e Frédérique Thoby ci guidano nel linguaggio segreto del verde.

Una pianta reagisce a ciò che accade intorno a lei. Questa reazione è misurabile sotto forma di microattività elettrica, variazioni che raccontano le sue percezioni: luce, calore, movimento, contatto umano o animale. È da qui che parte il lavoro di Jean e Frédérique Thoby, pionieri della musique des plantes.
Nel loro Plantarium di Gaujacq, nel sud-ovest della Francia, hanno messo a punto un sistema semplice quanto rivoluzionario: un elettrodo alla radice, uno alla foglia o al fiore. Le variazioni elettriche captate vengono tradotte in oscillazioni sonore, poi amplificate e trasformate in note musicali. Il risultato è una “voce” della pianta, una melodia che riflette la sua condizione e il suo ambiente. A queste linee melodiche i Thoby affiancano strumenti musicali, creando concerti in cui le piante partecipano davvero come interpreti.
Non si tratta di esoterismo, ma di phyto-neurologie, disciplina riconosciuta in Francia nel 2014. La musica vegetale, in questo contesto, è un linguaggio bioelettrico che testimonia una sensibilità diffusa nel mondo verde. Ogni specie “canta” in modo diverso. Ogni lavanda ha una voce sua, e persino lo stesso albero muta melodia in base a ciò che accade intorno a lui.
Oltre ad affascinare il pubblico, questo approccio apre prospettive inedite nella ricerca botanica e agronomica. Comprendere come una pianta comunica e reagisce può aiutarci a coltivare meglio, rispettare di più, vivere in ascolto.
Jean e Frédérique non si definiscono scienziati, ma “musiniéristes”: coltivatori di armonia. Insieme hanno trasformato una tradizione vivaistica in un’esperienza sensoriale e consapevole. Non solo conferenze e concerti, ma anche masterclass, registrazioni, e il libro Le chant secret des plantes.
In un mondo dove si è fatto troppo silenzio intorno alla natura, i Thoby ci invitano a tendere l’orecchio. Perché, forse, non siamo soli a parlare. E una foglia che vibra può avere molto da dirci.
AnneClaie Budin
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In Germania i cimiteri sono giardini verdi, luoghi della memoria e della biodiversità. Un esempio prezioso per ripensare anche in Italia il senso del commiato.

Nel silenzio dei cimiteri si intrecciano memoria, natura e futuro. In Germania questi spazi stanno conoscendo una profonda trasformazione: da luoghi del lutto a paesaggi viventi, dove la morte si accompagna alla bellezza e alla biodiversità. Qui il cimitero non è solo una soglia da oltrepassare, ma un luogo in cui sostare.
A partire dall’Ottocento, molti cimiteri tedeschi sono stati concepiti come veri e propri parchi. Il più celebre è il Friedhof Ohlsdorf di Amburgo: con i suoi 391 ettari, è il più grande cimitero-parco del mondo. Fra laghetti, roseti e oltre 450 specie arboree, ospita tombe di personalità e accoglie ogni giorno cittadini in cerca di quiete o di un luogo dove camminare lentamente.
Anche il Waldfriedhof di Monaco si distingue per l’armonia con l’ambiente forestale: sentieri, tombe discrete e più di mille specie di uccelli e mammiferi creano un ecosistema delicato e suggestivo. A Lipsia, il Südfriedhof incanta con decine di migliaia di rododendri e una varietà di fauna selvatica che ne fa un vero corridoio ecologico urbano.
Questi spazi verdi ospitano non solo le tracce di chi non c’è più, ma anche la vita che continua: scoiattoli, pettirossi, visitatori solitari, studenti in pausa, anziani che passeggiano. La cura dedicata a questi luoghi — dalla progettazione naturalistica ai percorsi culturali — mostra una diversa visione del fine vita: più integrata nella città, più sostenibile, più umana.
In Italia, cimiteri monumentali come quelli di Milano, Genova o Roma conservano una bellezza storica straordinaria, ma restano spesso isolati dalla quotidianità urbana. Invece di custodire solo il passato, potrebbero diventare spazi vivi: giardini del ricordo, rifugi per la biodiversità, luoghi dove il verde accompagna il lutto con discrezione.
Ripensare il cimitero come “ultimo giardino” significa aprirsi a un’idea più ampia di cura: per chi non c’è più, per chi resta, per il paesaggio. Un atto di rispetto che unisce memoria, silenzio e natura, e che potrebbe trovare terreno fertile anche nella cultura italiana.
AnneCaire Budin
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Adamah BioHof: quando l’agricoltore torna al centro della filiera. Ecco il caso austriaco premiato dal CAP Network europeo come modello di logistica agricola sostenibile e redditizia
Stavo facendo un’indagine sul reddito agricolo, tra le molte statistiche e gli allarmi delle associazioni di categoria, quando mi sono imbattuto in una storia che vale la pena raccontare. Una storia che non viene dalla nostra Maremma o dal Veneto agricolo, ma da pochi chilometri fuori Vienna, in Austria. Si chiama Adamah BioHof, ed è una fattoria biologica a conduzione familiare che ogni settimana consegna prodotti freschi a 6.500 famiglie. Fin qui nulla di nuovo. Ma è il “come” che cambia tutto. Non ci sono grossisti, non ci sono piattaforme logistiche, né filiali della grande distribuzione. Ci sono campi coltivati, cassette verdi, biciclette e furgoni refrigerati alimentati a energia solare. E c’è un agricoltore, Gerhard Zoubek, che ha deciso di non vendere il suo raccolto a un prezzo deciso da altri, ma di farsene carico fino in fondo, gestendo produzione, conservazione, commercio e logistica. Un agricoltore che ha scelto di usare la testa, la terra e una rete di relazioni per restare contadino, ma con reddito, dignità e futuro.
Il CAP Network, la rete europea della Politica Agricola Comune, l’ha scelto come caso esemplare nel workshop di Rouen sulla logistica innovativa in agricoltura. Non perché abbia inventato chissà quale algoritmo, ma perché ha costruito un sistema semplice e funzionante, dove l’agricoltura biologica non è una bandiera ma un’impresa quotidiana sostenibile. Adamah raccoglie, seleziona, conserva in celle a zero emissioni, vende online, carica su biciclette e furgoni solari e consegna in città. E se qualcosa avanza, lo redistribuisce. Non c’è nulla di romantico: c’è organizzazione, qualità, capacità di stare sul mercato. E c’è una rete di oltre 2.500 prodotti, propri e di altri agricoltori locali. Il tutto senza rinunciare a un principio: l’agricoltore al centro, il margine che torna alla fonte, il lavoro che resta in campagna.
Da noi, in Italia, il biologico è forte, strutturato, persino leader in Europa. Ma manca — o almeno io non conosco — un esempio che metta insieme produzione diretta, filiera corta reale e logistica sostenibile, senza passaggi intermedi, senza rivendite, senza perdite. I GAS fanno un lavoro prezioso, ma comprano e distribuiscono: non producono. Le piattaforme online crescono, ma restano terze rispetto all’agricoltura. E le consegne in bicicletta, quando ci sono, sono spesso più marketing che sistema.
E allora, forse, il punto è questo: se il reddito agricolo si erode, se le campagne si spopolano, se il cibo buono non arriva al consumatore o ci arriva troppo caro, non è colpa del tempo, del mercato o dell’Europa. È che manca una scelta, una visione. E se a Vienna un contadino è riuscito a tenere insieme tutte le tessere del mosaico, noi possiamo almeno porci la domanda: perché non qui, perché non ora?
Quando il biologico arriva in bicicletta, senza intermediari, e il prezzo lo decide chi coltiva, non è solo un bel gesto. È economia, è filiera, è futuro. E forse, anche dalle nostre parti, è tempo di cominciare a pedalare.
Andrea Vitali
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Le “Sponge Cities” o città spugna affrontano piogge estreme e siccità. Esempi virtuosi da Shanghai ad Amsterdam. In Italia si muovono Milano e Modena, ma serve una strategia più ampia.

Negli ultimi anni, l’urbanistica ha riscoperto l’acqua come risorsa per rispondere alla crisi climatica. Non più solo elemento da incanalare e respingere, ma prezioso alleato da accogliere, trattenere, restituire. È in questo contesto che nasce il concetto di Sponge City, o “città spugna”, una risposta concreta e adattiva ai cambiamenti climatici che rende l’ambiente urbano più resiliente agli eventi meteorologici estremi.
Il termine è stato coniato in Cina, dove il governo, a partire dal 2014, ha lanciato un programma nazionale per contrastare alluvioni e siccità sempre più frequenti, migliorando la resilienza urbana attraverso una gestione sostenibile dell’acqua piovana. L’idea è semplice e rivoluzionaria: progettare città capaci di assorbire l’acqua piovana come farebbe il suolo naturale, evitando il deflusso rapido che causa allagamenti e sovraccarichi nei sistemi fognari.
Le città spugna integrano una rete di infrastrutture verdi: tetti verdi, pavimentazioni permeabili, bacini di ritenzione sotterranei, parchi in grado di assorbire l’acqua, canali filtranti. Oltre a ridurre il rischio idrogeologico, queste soluzioni migliorano la qualità dell’acqua, mitigano l’effetto “isola di calore” e aumentano la biodiversità urbana. Non esiste una formula unica: ogni contesto può adattare gli interventi a seconda delle esigenze climatiche e territoriali.
Shanghai è una delle prime metropoli ad aver implementato il modello, con risultati incoraggianti. Singapore e Amsterdam l’hanno seguita, puntando su sistemi integrati di raccolta e infiltrazione delle acque. In Europa, il progetto Grow Green sta trasformando Berlino e Vienna in ambienti più resilienti grazie alla riconversione di cortili, piazze e tetti in superfici drenanti.
In Italia, però, il modello di città spugna stenta a decollare, nonostante l’aumento di eventi meteorologici estremi: piogge torrenziali, grandinate record, siccità prolungate. Secondo l’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change), la frequenza e l’intensità di questi fenomeni è destinata ad aumentare. L’Italia è terza in Europa per impermeabilizzazione dei suoli, con gravi conseguenze sulla qualità ambientale e sulla disponibilità idrica.
Qualcosa però si muove. Modena ha partecipato al programma Grow Green, mentre Milano ha avviato il progetto “Città metropolitana Spugna”, con 90 interventi per ridurre l’impatto delle piogge nei Comuni dell’hinterland. Si tratta di esempi importanti, ma ancora troppo isolati. Serve una visione strategica condivisa, supportata da politiche urbanistiche orientate alla rigenerazione ecologica.
Le città spugna non sono solo infrastrutture, ma un cambio di paradigma. Impongono una revisione radicale del rapporto tra città e natura. Dove prima c’erano barriere di cemento, oggi servono suoli permeabili; dove c’erano scarichi a cielo aperto, servono bacini filtranti. La sfida è progettare spazi che non combattano la pioggia, ma la accolgano.
È tempo che la pianificazione urbana, soprattutto quella locale, assuma un ruolo centrale nel mitigare gli impatti climatici. Una città spugna non è solo più sicura: è anche più bella, verde, vivibile. E rappresenta una delle strade più concrete per costruire territori sani, capaci di affrontare il futuro senza subire il presente.
AnneClaire Budin