Arte Verde
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- Scritto da Andrea Vitali
Jason deCaires Taylor crea installazioni scultoree dinamiche subacquee per sensibilizzare le persone sul tema della conservazione degli oceani ed i pericoli del cambiamento climatico. Realizza le sue opere in cemento marino, combinando le tradizioni della Land Art con la sensibilità della Street Art. Crea opere in continua evoluzione, piene di sorpresa, compassione e arguzia. In installazioni come "Silent Evolution", deCaires Taylor trasforma i ritratti statuari delle comunità locali in barriere artificiali che supportano direttamente la vita oceanica da cui dipendono quelle comunità. In "The Banker" e "Deregulated" i monumenti sottomarini raffiguranti l'avidità aziendale, si trasformano in vivaci habitat per la flora e la fauna marina. In tutto il suo lavoro, deCaires Taylor raffigura persone impegnate in attività quotidiane ordinarie - guardare la TV, guardare un cellulare, scattare un selfie - come un modo per evidenziare il nostro ruolo come individui nel degrado dell'ambiente. Ci esorta a evitare di lasciare un'eredità di inquinamento oceanico e cambiamento climatico distruttivo e ad accettare la nostra responsabilità collettiva nei confronti delle generazioni future. Ed è il primo a dare l'esempio, introducendo barriere artificiali in ambienti marini in difficoltà in modo da restituire vitalità ai nostri oceani, un tesoro sommerso alla volta.
Arte verde è una rubrica curata da AnneClaire Budin
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Gi anni ’60 sono stati un momento vivace della scena artistica giapponese, infatti in questo periodo si formarono due collettivi significativi: GUN (Group Ultra Niigata) e The Play.
"Wilderness”, parola inglese che si può tradurre come "terra selvaggia”, fa immediatamente riferimento al mondo naturale, dove questi artisti si sono esibiti e hanno impostato molte delle loro installazioni. In questo decennio di rifacimento politico e ripresa postbellica, questi artisti "fuori dalla sede del potere" hanno innovato grazie a nuove forme di arte concettuale capaci di sfidare le norme sociali.
Alla guida del collettivo GUN c’erano i neolaureati Tadashi Maeyama e Michio Horikawa, originari di in una remota regione del Giappone. Hanno bruciato rapidamente le loro risorse finanziarie, ma non prima di aver eseguito la loro performance più nota: “Event to Change the Image of Snow” (1970). Spinto dal desiderio di spezzare il tetro inverno di sei mesi di Niigata, il gruppo ha utilizzato uno spruzzatore di pesticidi per ricoprire il paesaggio bianco di un pigmento rosso, giallo e blu brillante. Il bellissimo spettacolo, che presto scomparve sotto la neve che cadeva, è stato fortunatamente immortalato nelle fotografie. Dopo lo scioglimento del gruppo, Maeyama ha continuato a creare diverse opere di carattere politico. “Antiwar Flag” (1970) è la sua reazione al conflitto in Vietnam e raffigura il sangue che gocciola dalle strisce della bandiera americana nel cerchio rosso della bandiera Giapponese. In risposta a un altro evento decisivo dell’epoca, Horikawa, nel 1969, iniziò la serie "Mail Art by Sending Stones" dopo lo sbarco sulla luna dell'Apollo 11 e spedì persino una pietra al presidente Nixon.
L’altro collettivo, The Play,aveva seda ad Osaka. Tra le loro istallazioni possiamo citare “Voyage: Happening in an Egg” (1968): il lancio di un grande uovo in fibra di vetro nel Pacifico con la speranza che la corrente lo avrebbe portato in Nord America. In “Current of Contemporary Art” (1969), il gruppo remò da Kyoto fino al centro di Osaka su una zattera di polistirolo a forma di freccia. La performance su documentata e mostrata agli spettatori durante un’apposita mostra che aveva un'area salotto sempre a forma di freccia. Il gruppo The Play continuò a ideare nuovi lavori anche nei due decenni successivi e trascorse ben dieci anni cercando di far colpire da fulmine una piramide alta 20 metri che avevano costruito come parte del loro progetto “Thunder” (1977-86).
GUN e The Play sono i protagonisti di un periodo unico, non solo nell'arte contemporanea giapponese, ma anche in un contesto globale.
Arte verde è una rubrica curata da AnneClaire Budin
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Ci ha lasciato martedì 21 aprile 2020 all’età di 72 anni Lois Weimberger. Era definito “l’uomo verde” colui che non voleva creare un sistema ma voleva fare un mondo. L'artista Lois Weinberger occupava una posizione speciale sulla scena artistica: operava come interfaccia tra arte e natura, opponendosi al concetto di bellezza con sottili mezzi anarchici. Si considerava un ricercatore sul campo. Dagli anni '70, nelle zone rurali, realizzò opere utilizzando gli scarti della civiltà. Successivamente si interessò alla vegetazione spontanea, che si sviluppa senza intervento umano. Nato nel Tirolo austriaco nel 1947, figlio di un contadino e lui stesso contadino, ha mescolato pratica agricola, conoscenza biologica, riflessioni ecologiche, oltre a considerazioni sociologiche ed economiche.
Le piante ruderali - "Weeds" - furono per l'artista una delle sue principali fonti di ispirazione e furono all'origine di una moltitudine di appunti, disegni, fotografie, oggetti, testi, film e importanti installazioni. Tra questi, “Wild cube” (1991-2018), una gabbia d'acciaio, che rende impossibile ogni intervento umano, ma che consegna all'interno della proliferazione della vegetazione spontanea, è una magistrale illustrazione del potere simbolico del una natura liberata dall'uomo.
Nello stesso periodo Lois Weinberger, iniziò a lavorare per "sradicare" piante dai contesti urbani e rurali negli appezzamenti da lui curati. Durante Documenta X, ha introdotto piante neofite del sud e sud-est dell'Europa su 100 metri di binari ferroviari, metafora dei processi migratori moderni, il cui carattere poetico ed eminentemente politico sarà acclamato dalla critica internazionale.
Nel 2004 ha realizzato l'opera "Garden" composta da 2.500 vasi in PVC riempiti di terra offerta al vento e agli uccelli che hanno seminato naturalmente i semi di un "prato" spontaneo. L'installazione sfida il passante e incoraggia la riflessione sulle analogie tra natura e cultura, i modi di concepire e vivere in uno spazio urbano, la diversità e lo sguardo focalizzato su ciò che è considerato estraneo, sia in il regno vegetale o società umana.
L'elenco delle centinaia di mostre e opere in spazi pubblici che punteggiano la sua carriera mostrano la sua presenza nei maggiori eventi di influenza del mondo dell'arte: le biennali di San Paolo (1991) e Venezia (2009), la documenta 10 e 14 di Kassel (1997) e (2017), Atene (2017), mostre collettive o monografiche in numerosi centri d'arte e prestigiosi musei.
Arte verde è una rubrica curata da AnneClaire Budin
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Nato a Cortona nel 1978, dove attualmente vive e lavora, Roberto Ghezzi inizia a dipingere molto precocemente, frequentando lo studio di famiglia, dove apprende le basi del disegno e della pittura ad olio. Studia presso l’Accademia delle Belle Arti di Firenze e dal 1992 inizia la sua attività espositiva con personali e collettive, in Italia e all’estero.
Disegni, acquarelli, dipinti a olio ma anche singolari opere d’arte come le “naturografie” che nascono da vere e proprie “azioni fisiche” come quella di collocare la tela sulla terra o nell’acqua e lasciare che la natura parli attraverso le sue tracce, raccontano l’eterno viaggio di Ghezzi.
I suoi acquarelli, si arricchiscono di materia (come foglie, fiori e terra raccolti sui luoghi dei suoi viaggi) come nel caso delle opere dedicate al territorio senese che sono caratterizzate dalla “terra di Siena” proveniente dalle Crete, utilizzata sia come componente del colore sia come protagonista della “naturografia”.
Il processo creativo di Roberto Ghezzi per le “naturografie” inizia scegliendo il luogo dell’installazione, il materiale del supporto e il tempo della creazione, lasciando alla Natura stessa il completamento dell’opera. Nascono così, dalla mano degli elementi e dalla mente dell’uomo, le Naturografie: opere che non rappresentano più il paesaggio, ma lo sono.
I supporti pittorici con cui l’artista opera vengono fissati tra i sassi dei ruscelli, i rami di un torrente, o immersi nelle rive di un lago; esposti dunque, per un certo periodo di tempo, al perpetuo movimento dell’acqua, al massaggio pastoso della terra, alla forza del vento, in pratica a tutte le energie dell’ambiente circostante. Oltre alla scelta del luogo, Ghezzi determina quando la tela è pronta per essere prelevata e blocca la creazione fissando le impronte della natura con la resina. Senza questa azione le Naturografie continuerebbero a evolvere all’infinito.
Roberto Ghezzi ha effettuato decine di residenze artistiche, ricerche sperimentali e istallazioni ambientali oltre che in Italia, in luoghi remoti del pianeta come l’Alaska, l’Islanda, il Sudafrica, la Norvegia, la Tunisia e la Patagonia.
Arte verde è una rubrica curata da AnneClaire Budin
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Unendo realtà e immaginario, politico e folcloristico, Petrit Halilaj (nato nel 1986 a Kostërrc) lavora con una varietà di media tra cui scultura, video, disegno e testo, oltre a tessuti e materiali tradizionali. Il lavoro di Halilaj esamina la relazione tra identità culturale e patrimonio, memoria personale e collettiva, e spesso usa gli animali come metafore per la trasformazione, come nelle gigantesche sculture di falene performative e installazioni di "creature" simili a uccelli. Più di recente, i suoi progetti si sono concentrati intorno a Runik, in Kosovo, un sito di insediamenti neolitici e al villaggio in cui è cresciuto e da cui è dovuto fuggire con la sua famiglia durante la guerra del Kosovo del 1998-1999 per andare in Albania.
L’installazione nel Palacio de Cristal al Parque del Retiro di Madrid
dal titolo “A un corvo e agli uragani che riportano odori di umani innamorati da luoghi sconosciuti” ricrea un grande nido, composto da rami ed enormi boccioli di ciliegio e forsizia, garofani, gigli e papaveri che, con i loro colori sgargianti, attraggono i visitatori verso l’interno dello spettacolare edificio in ferro e vetro.
L’opera si connette direttamente al parco attraverso le finestre lasciate aperte, invitando ad entrare volatili e piccoli animali per nutrirsi con i semi lasciati a loro disposizione in deliziose zone ristoro.
Il tema del rifugio, centrale nella poetica di Halilaj – fortemente connessa alla difficile situazione politico-culturale della sua terra d’origine, funge da spunto per la riflessione sui concetti di casa, nazione e identità, ma è anche una celebrazione dell’amore universale e senza confini. Senza dubbio l’artista ha saputo creare un ambiente unico ed emozionante, dove tornare per un poco bambini.
L’esposizione si terrà fino al 28 febbraio 2021.
Arte verde è una rubrica curata da AnneClaire Budin