Vis-à-vis

Intervista al presidente di Cia, a Firenze per l’assemblea regionale, che dice: non bastano piccole modifiche alla Pac e bisogna premiare «non le aziende efficienti, ma filiere efficienti». Dino Scanavino propone un piano straordinario di manutenzione ordinaria del territorio affidato agli agricoltori. L’abolizione dei voucher è «sciagurata» e nella legge sul caporalato, appoggiata da Cia, vanno corrette le norme che trasformano in reati penali dei banali illeciti amministrativi.  

«Parto con una considerazione, che peraltro ha fatto l’Unione europea stessa, e cioè che la Pac sino ad oggi non ha assolto al ruolo che si era data, tant’è che le imprese più deboli sono diventate più deboli e quelle più forti si sono rafforzate e che l’80% delle risorse sono andate al 20% delle imprese, ancora una volta, anche dopo i correttivi che sono stati posti sull’agricoltore attivo e sulla black list ecc. ecc. Per cui il tema non è come noi modifichiamo questa Pac ma è la visione di una nuova Politica agricola comunitaria che deve lasciar indietro quasi tutto quello che è accaduto fino ad oggi, perché non ha riportato il risultato sperato». 
Così Dino Scanavino, presidente nazionale di Cia – Agricoltori italiani, sentito al termine dell’assemblea di Cia Toscana tenutasi stamani a Firenze per presentare le proposte del livello regionale dell’associazione sullo sviluppo rurale e sulla Politica agricola comune (Pac) post 2020, in vista della partecipazione alla “Conferenza regionale dell’agricoltura e dello sviluppo rurale” del 5 e 6 aprile prossimi a Lucca, nonché della conferenza economica “Agricoltura crea valore” che Cia nazionale organizza a Bologna dal 29 al 31 marzo prossimi.
«Lo sviluppo rurale – ha continuato Scanavino, sentito da Floraviva sugli argomenti toccati nel suo intervento - non vuol dire espellere dalle aree rurali le aziende più deboli, ma vuol dire rafforzarle perché rimangano in quel contesto. Allora la visione della politica deve portarci a considerare il sistema agricolo all’interno del contesto sociale più complessivo, cioè come settore di servizio alla qualità della vita dei cittadini nel loro complesso. Allora i cittadini pagheranno anche più volentieri le loro tasse per metterle a disposizione dell’agricoltura, non degli agricoltori».
Lei ha detto che non ci deve preoccupare più di tanto il livello del budget della Pac in sé, quanto ancor più che cosa ci si mette dentro in termini di aiuti, e che esso è il 38% del bilancio dell’Ue…
«E’ così, la politica agricola comunitaria assorbe il 38% del bilancio comunitario. Quindi è una cifra molto importante. Ma se questo 38%...»
E se diminuisse? Non è preoccupato?
«Mi preoccupa di più che l’80% delle risorse smetta di andare solo al 20% delle imprese, perché se il riequilibrio complessivo porta risorse ad agricoltori che ne hanno titolo e non hanno mai potuto averle, può darsi che il problema principale non sia nemmeno il livello del budget. Certo che il livello del budget è un problema, non voglio essere frainteso, ma non è un punto in più o un punto in meno, di fronte a un problema di questo tipo. Il problema grande è che il ruolo che la Pac doveva avere non l’ha avuto o non l’ha avuto sino in fondo».
Ha detto che volete che la Pac serva non ai possidenti di terre o latifondisti ma agli agricoltori, cosa significa questo in concreto?
«Intanto ci vuole un’attenzione alla gestione del territorio e al valore dell’agricoltura sul territorio e al ruolo che gli agricoltori svolgono per mantenere il sistema rurale in efficienza. Io credo che ci voglia un progetto straordinario di manutenzione ordinaria. Farebbe risparmiare risorse a valle, molte volte spese in opere di cemento armato che non servono a risolvere il problema. Bisogna partire dall’alto e incominciare a intervenire sui problemi scendendo man mano a valle. Gli agricoltori possono avere un ruolo positivo e anche quelle aziende che non sono in grado di produrre per il mercato avrebbero un impiego e una produzione di beni eco-ambiental-sociali di straordinario valore. E poi c’è il mercato, cioè noi dobbiamo aggregare le filiere, dobbiamo avere più cooperazione, più op, reti di impresa, mettere assieme il prodotto ma non per ammassare merci, ma come un progetto strategico, filiera per filiera, su come vogliamo affrontare il mercato, rifuggendo ogni autoreferenzialità e il pensiero che solo noi abbiamo la grande qualità, perché il mondo seleziona e non è detto che scelga noi. Dobbiamo farci scegliere, essere accattivanti. Dobbiamo pretendere regole chiare fitosanitarie alle frontiere, sapendo però che non è con quelle che noi fermeremo l’evoluzione del mercato, bisogna che la Pac incentivi filiere che si approvvigionino della materia prima sul territorio e abbiano dei progetti di penetrazione dei mercati lungimiranti».
Recentemente a un incontro organizzato a Firenze da Agrinsieme sulla cooperazione agroalimentare e le politiche a sostegno di essa, è stato chiesto che i finanziamenti all’agricoltura, fra cui quelli della Pac, vadano a imprese competitive, più grandi e strutturate, che li sanno mettere utilmente a frutto, e non ad esempio agli agricoltori hobbisti. Quale è la sua posizione, visto che in quella sede è stato chiesto ai produttori di far sentire la loro voce in seno al coordinamento di Agrinsieme?
«Io mi riferisco intanto agli agricoltori, perché tutte le aziende, cooperative o meno, sono costituite da agricoltori, non sono avulse dal contesto. Allora il reddito degli agricoltori che oggi conferiscono in cooperativa ahimè non è molto diverso da quello di coloro che vanno al mercato. Quindi il problema esiste di avere aziende più efficienti. Ma esiste per tutti: per le cooperative, per le aziende che hanno la filiera interna, per quelli che si relazionano con l’industria ecc. Non è molto diverso. Per cui io sono d’accordo a premiare filiere efficienti, non aziende efficienti. Le aziende efficienti non hanno bisogno di soldi pubblici, le filiere efficienti sì. Le aziende devono fare con quello che hanno, i soldi pubblici servono per il contesto non per rafforzare un’azienda, per rafforzare un tessuto produttivo che è fatto di aziende, che producono materia prima, che la trasformano e poi quelle che la vendono ecc. Questo è il nostro progetto, allora lì l’efficienza non è mai troppa. E la premialità all’efficienza è straordinariamente importante, con delle misurazioni ex post. Perché si premia il progetto e si verifica il risultato. Se il risultato non è venuto, quell’azienda deve modificarsi per poter avere anche un altro contributo».
Tutte le aziende, anche le piccole, quindi?
«Tutte, perché sono le filiere a dover essere sostenute…» 
Ma non gli agricoltori hobbisti, immagino.
«Guardi, su questa questione la mia posizione è: dipende da dove sono gli hobbisti, perché se c’è una persona che lavora all’acciaieria di Piombino e la sera torna sulla montagna e accudisce quattro vacche e una piccola vigna o frutteto, secondo me ha titolo ad avere qualcosa anche lui, perché dà un contributo molto importante continuando a vivere in quel luogo non ammassandosi in una città e dando un contributo ambientale a quel luogo. Non escluderei una rivisitazione di questa categorizzazione che di fatto non ha portato nulla di produttivo. Tant’è che le società che non avevano gli agricoltori li hanno messi… il problema è che non si cambiano le dinamiche con dei piccoli aggiustamenti, ma con delle politiche strategiche e qui non vedo politiche strategiche».
Un commento sui problemi del lavoro in agricoltura?
«In Europa l’agricoltura conta 14 milioni di imprese agricole, occupa 30 milioni di persone e si occupa del 45% del suolo del continente. A noi i temi del lavoro interessano moltissimo. Quello che è accaduto con l’abolizione dei voucher per esempio noi l’abbiamo considerata un’azione sciagurata, in quanto, peraltro essendo degli utilizzatori marginali visto che l’agricoltura utilizzava i voucher per l’1,5% del totale, andavano a colmare una necessità straordinaria in alcuni concentrati momenti dell’anno. Questo è un problema, così come lo sono alcune norme inserite nella legge del caporalato, da noi approvata incondizionatamente, che oggi vanno corrette perché i parametri che trasformano da illecito amministrativo a reato penale una banalità come un agricoltore che non indossa adeguatamente gli strumenti anti-infortunistici o ha lavorato un’ora in più dell’orario del lavoro per tre giorni consecutivi ci sembra un’aberrazione del concetto anche di sussidiarietà tra datore di lavoro e lavoratore e la pubblica amministrazione che dovrebbe essere un po’ più fluido ed elastico».
E come vanno i dati dell’occupazione dell'agricoltura italiana?
«L’agricoltura è sempre stata anticiclica, quindi gli ultimi dati ci danno un’occupazione in aumento. Ovviamente un’occupazione che si stabilizza sempre in una funzione precaria perché l’agricoltura ha dei cicli meteorologici che non ti consentono di far lavorare le persone per dodici mesi, ma noi vediamo dal trend dei rinnovi contrattuali, pur a tempo determinato, che gli stessi lavoratori continuano ad essere assunti dalle stesse imprese. Quindi quando noi parliamo di lavoro atipico in agricoltura sbagliamo, perché è un lavoro fortemente tipico, che dovrebbe avere un contratto particolarmente ad hoc ed elastico, perché noi dobbiamo rispondere con l’elasticità a delle evenienze atmosferiche che non possiamo predeterminare». 
 
Lorenzo Sandiford

A Firenze per il convegno di Agrinsieme e Accademia dei Georgofili sulla cooperazione agroalimentare il presidente della commissione Agricoltura della Camera Luca Sani ha ricordato due risoluzioni approvate ieri che chiedono al Governo anche meno burocrazia e più aggregazioni. Disponibilità a un approfondimento a sostegno del modello cooperativo in agricoltura. 

«Un ragionamento specifico sul modello cooperativo non l’abbiamo ancora fatto in commissione Agricoltura, a differenza che sulle organizzazioni di prodotto (op) e sulle organizzazioni interprofessionali. Valutiamo se intraprendere un’iniziativa in tal senso», tenendo conto di tre aspetti salienti quali l’aggregazione delle aziende agricole, la questione dei servizi alle imprese (soprattutto in vista di una probabile riduzione delle risorse della Politica agricola comune) e i risvolti sociali dell’agricoltura. 
E’ quanto sostenuto da Luca Sani, presidente della commissione Agricoltura della Camera dei deputati, oggi alla tavola rotonda conclusiva del convegno “Cresce la cooperazione agroalimentare, cresce l’agricoltura” organizzato ieri e oggi a Firenze da Agrinsieme e l’Accademia dei Georgofili. Durante il suo intervento Sani ha fra l’altro ricordato le due risoluzioni approvate nella seduta di ieri della commissione da lui presieduta.
Al termine del convegno, Floraviva gli ha chiesto un breve chiarimento dei punti salienti delle due risoluzioni.
«Diciamo che nella prima c’è una raccomandazione a intervenire sulla burocrazia, che è ancora troppo pesante per le aziende agricole; a intervenire con risorse sulle organizzazioni di prodotto, perché riteniamo, per le cose dette anche in questo convegno, che l’aggregazione sia fondamentale per l’agricoltura italiana, data la sua frammentazione; e a proseguire nell’attività di tracciabilità delle produzioni, in particolar modo sull’etichettatura».
Nella seconda invece?
«L’altra si pone il problema di mantenere le risorse ad oggi disponibili per la Pac, dato che preoccupa perché con l’uscita della Gran Bretagna potrebbe ridursi il budget a disposizione dell’agricoltura europeo e per i singoli Paesi. Anche qui un sostegno all’aggregazione e la valutazione più complessiva di passare da un sostegno a ettaro a un sostegno in base alle produzioni, in modo tale da premiare il lavoro e non la rendita».
In base alla produzione che cosa significherebbe in concreto?
«Ad oggi la Pac interviene sull’ettaro coltivato. Noi pensiamo che si debba impostare un sostegno basato sulle produzioni effettive che vengono realizzate dalle aziende nei diversi comparti dell’agricoltura».
Ecco, agganciandomi al messaggio conclusivo del suo intervento, lei diceva che è disponibile a fare anche un incontro sul tema della cooperazione agricola…
«Più che un incontro a fare un approfondimento…».
…avete già in mente una data?
«No, non c’è. Ci mettiamo a disposizione, rispetto anche a come, nel contesto dei nuovi scenari che riguardano l’agricoltura italiana, la cooperazione possa incrementare quel ruolo determinante che già oggi ha in tanti comparti agroalimentari. Questo con un lavoro specifico, che potrebbe essere un’indagine conoscitiva, che è uno strumento a disposizione della commissione Agricoltura. E questa potremo poi trasformarla in un impegno per il Governo».
 
L.S.

enzo torino

Intervista a Enzo Torino, manager di Unicredit Lombardia, a margine della presentazione della 3^ edizione di Myplant & Garden. L’importanza delle aggregazioni di imprese per i progetti di internazionalizzazione e gli strumenti di formazione bancaria e finanziaria per aiutare le pmi a rapportarsi con l’universo del credito.

Tra gli intervenuti alla conferenza stampa di presentazione di Myplant & Garden 2017, che si svolgerà in due padiglioni di Fiera Milano dal 22 al 24 febbraio, c’era anche Enzo Torino, Deputy Regional Manager Lombardia di Unicredit, che ha sponsorizzato questa manifestazione fieristica b2b sul florovivaismo e la filiera del verde fin dall’inizio nel 2015. Forte del suo network di banche estere, Unicredit è il gruppo bancario italiano più internazionalizzato e, come è emerso nella conferenza di Myplant del 13 febbraio a Milano, ha aiutato la fiera a stringere accordi con imprese e buyer stranieri.
Floraviva ha intervistato Enzo Torino dopo l’incontro con i giornalisti, chiedendogli di spiegare le problematiche che emergono più frequentemente con le aziende florovivaistiche, o più in generale agricole, quando esse si rapportano con l’universo del credito; e di illustrare anche le risposte a tali problemi che arrivano dal mondo bancario, magari aggiungendo qualche consiglio rivolto specificamente agli agricoltori e florovivaisti italiani appartenenti alla categoria delle piccole e medie imprese (pmi).
«Innanzi tutto grazie dell’opportunità di dare voce a quello che vediamo noi come Unicredit – ha esordito Enzo Torino -. Bè le aziende del settore appartengono al mondo più grande dell’agricoltura e soffrono del problema dimensione. Un po’ tutte le aziende del settore agricolo hanno infatti una dimensione medio-piccola, direi più piccola che media. Questa è la caratteristica del sistema imprenditoriale italiano, ma probabilmente più di altri settori quelli dell’agricoltura e del florovivaismo hanno questo tipo di caratteristica».
Cosa comporta la piccola taglia delle aziende?
«L’essere piccoli rende qualcosa più difficile e qualcosa più facile. Sicuramente sono più flessibili, si adattano meglio ai cambiamenti e questo è sicuramente un punto di forza, anche nei rapporti col credito. Di certo la piccola dimensione non consente di fare alcune cose. E la dimostrazione è anche il consorzio di Myplant & Garden, che nasce dall’unione di sette piccole realtà e, come diceva lo stesso presidente, ognuno di loro singolarmente non sarebbe mai riuscito a fare quello che stiamo facendo se non avessero avuto la forza di mettersi insieme. Poi ci sono tante modalità per mettersi insieme, con i loro pro e i loro contro, non c’è solo la modalità classica del fare società. Loro hanno scelto la strada del consorzio, che vuol dire sposare un’idea comune, che nel loro caso era promuovere il brand del florovivaismo italiano e spingere sull’internazionalizzazione. Mettersi insieme era necessario. Da soli non ce l’avrebbero fatta, anche banalmente per motivi organizzativi e di investimenti necessari».
Quali le forme di aggregazione che vengono più utilizzate e per quali scopi?
«Il consorzio è una delle modalità per mettersi insieme. Esiste la rete di impresa, che è un’altra modalità che hanno le imprese piccole per aggregarsi e magari continuare nel loro business normale a fare da soli e su progetti speciali farli insieme ad altri. Uno dei progetti speciali che normalmente porta le imprese, anche di questo settore, a mettersi insieme è quello dell’internazionalizzazione. Il florovivaismo - non lo dico io, lo dicono i numeri - è oggi un mercato molto basato in Italia. Sembra strano se pensiamo che il bello, il design, l’architettura che stanno dietro al florovivaismo, e che sono elementi d’eccellenza dell’Italia, non riusciamo a venderlo in questo ambito se non prevalentemente in Italia. Quindi andare di più all’estero a vendere i nostri prodotti, e non solo il fiore o le piante, ma anche le idee e la creatività ad essi connesse, che sono tipici dell’italianità, deve essere un obiettivo. Il consorzio se l’è dato e in questo senso a noi è piaciuta fin dall’inizio l’idea di aiutarli».
Cosa state facendo per favorire la proiezione internazionale della manifestazione?
«Noi, grazie al nostro network di 14 banche all’estero e ai collegamenti che abbiamo in tutto il mondo, siamo riusciti fin dalla prima edizione ad aiutarla ad attrarre buyers, a inserirla in un network internazionale e farla conoscere da quei grandi compratori che ci sono nel mondo, a portare questi buyer in Italia a una manifestazione dove in tre giorni trovano, me lo lasci dire, un po’ il meglio del settore in un solo posto, che è ancora oggi il valore delle fiere».
E, passando alla questione dell’accesso al credito, come vanno le cose per le pmi del florovivaismo?
«L’essere piccolo comporta a volte difficoltà nell’accedere al credito. Sono stati fatti passi in avanti in questo senso. Il Governo ha preso atto che non è un problema di una banca ma un problema di un sistema, soprattutto quando si confronta con le aziende piccole. Da qui le garanzie che vengono date per certe tipologie di finanziamenti che stanno alla base degli investimenti, con il Fondo centrale di garanzia che aiuta sicuramente le imprese e le banche a dialogare. Noi abbiamo scelto anche un’altra via: utilizzare la nostra forza per costruire delle soluzioni che prendono delle garanzie centrali e poi danno la possibilità ai piccoli di ottenere credito a condizioni più favorevoli rispetto a quelle che potrebbero altrimenti ottenere».
Date altre forme di aiuto alle pmi agricole, oltre ai prestiti a condizioni favorevoli?
«Sì, perché il sistema bancario vede i piccoli come imprese da aiutare. Infatti spesso il piccolo imprenditore si concentra sul prodotto, sul fare in questo caso la pianta più bella o il fiore più bello e dedica molto meno tempo a tutto quello che bisogna fare per gestire un’impresa: organizzarsi, pianificare, cercare nuovi mercati, curare i conti, che alla fine devono quadrare, guardare quanti ne ho, se ne ho, di finanziamenti…»
Forse non hanno nemmeno le conoscenze necessarie per rapportarsi bene con voi…
«E manca a volte anche il tempo, perché spesso l’impresa è fatta da una persona che deve fare tutto…»
Ecco che aiuto date in questi casi?
«Allora, fermo restando che le associazioni di categoria sono il primo approdo per questa tipologia di imprese, che trovano nelle loro specifiche associazioni un porto e un conforto, noi abbiamo ormai da tempo istituito due programmi di educazione bancaria e finanziaria. Uno si chiama “In-formati” e l’altro “Go International!”. Il primo è un catalogo di moduli formativi che eroghiamo agli imprenditori, soprattutto piccoli, che hanno bisogno di imparare a muovere i primi passi nel mondo della finanza: come presentarsi alla banca, come stilare un piano finanziario o un piano economico, che poi è alla base di qualunque scelta di merito di credito della banca, la quale deve capire non solo che sei una brava persona, ma anche che hai una buona idea, e anche che hai un buon piano per realizzarla e trasformarla in una buona impresa. Poi è evidente che il mercato ci può riservare delle sorprese. Ma se io già non parto con un progetto…».
Dunque questo primo programma formativo è per tutte le pmi ma adatto a quelle agricole?
«Assolutamente».
Lo presentate a Myplant?
«Non lo presentiamo a Myplant perché in realtà non è una novità. Noi stiamo già lavorando su “In-formati”, nel senso che è già disponibile sul nostro sito web e uno può scaricare i moduli. Inoltre si possono organizzare degli incontri mirati con le associazioni di categoria».
E il secondo programma formativo in che consiste?
«L’altro programma, “Go International!”, è un altro catalogo di moduli educativi con l’obiettivo di aiutare le imprese a capire quali sono le cose da fare per riuscire a internazionalizzarsi. Tradotto: quali sono le attenzioni che deve avere una piccola impresa quando pensa al mercato estero come a uno sbocco? Perché spesso si dice che bisogna non solo vendere in Italia ma andare all’estero, ma, attenzione, non è che all’estero sono tutti là che ci aspettano. Anche per andare all’estero bisogna pianificare, organizzarsi, capire se voglio solo esportare, se voglio magari dopo costituire una filiale all’estero, crearmi una mia rete distributiva. Poi ci sono i temi legati ai dazi e la fiscalità che devo sopportare. I costi che devo sopportare. Come incasso dall’estero. Quindi c’è una serie di attenzioni…»
Avete anche delle forme di finanziamento specifiche per chi fa operazioni di internazionalizzazione?
«Assolutamente sì. Normalmente il primo tema bancario che uno affronta all’estero è: come incasso? Un altro tema è: come faccio a essere sicuro che quel cliente mi paga? E noi abbiamo anche delle soluzioni di assicurazione del credito, perché a volte all’estero non conosco il mio cliente nei dettagli come lo conosco in Italia, quindi la protezione del proprio credito può essere un valore, soprattutto per l’impresa piccola. Ovvio che poi quando un’azienda diventa grande e magari decide di avere una sua filiale all’estero o andare in produzione all’estero, nei molti Paesi in cui siamo presenti, possiamo aiutarli con le nostre banche, come se fossero un’impresa locale a tutti gli effetti».
Ma le pmi possono provare a internazionalizzarsi da sole, senza reti d’impresa, o è sconsigliato?
«Allora, provare possono tutti, evidentemente. Ma le difficoltà per un piccolo nell’andare all’estero sono moltiplicate dalla dimensione. Le faccio un esempio semplicissimo: se decido di fare un investimento in Spagna, banalmente dovrò andare in Spagna: se ci vado da solo il biglietto aereo pesa tutto sulle mie tasche, se abbiamo un consorzio di produttori italiani…»
O anche una rete di impresa…
«Certamente anche una rete d’impresa, come dicevo prima, ma dunque è sempre uno il biglietto che si deve pagare ma quelli che lo pagano sono sei o sette. Anche questo banalissimo esempio chiarisce bene come certe attività fatte insieme abbiano molte più probabilità di successo che non fatte da soli».

Lorenzo Sandiford
 

Il sindaco Giurlani sui prossimi snodi del rilancio della floricoltura: il Distretto floricolo Lucca Pistoia del 2 febbraio in cui si attende l’input dell’assessore Remaschi, la successiva cabina di regia del mercato dei fiori (con nuovo regolamento) e l’avviso pubblico ai privati per la multifunzionalità. Senza dimenticare il tavolo Pescia agricola e verde-floreale (Pav), coordinato da Della Felice, che deve nominare il presidente

Si muove su più fronti l’azione del sindaco di Pescia Oreste Giurlani per rilanciare la floricoltura pesciatina e di tutto il distretto floricolo Lucca Pistoia. Le prossime due o tre settimane saranno per molti versi determinanti, a cominciare dalla riunione del distretto floricolo del 2 febbraio, a cui è annunciata la partecipazione anche dell’assessore regionale all’agricoltura Marco Remaschi
«Con la nuova disciplina sui distretti ruralispiega Oreste Giurlani a Floraviva - le provincie non hanno più un ruolo nei distretti e il Comune di Pescia è in questo momento il soggetto referente del Distretto floricolo interprovinciale Lucca Pistoia. Verso la fine dell’anno scorso abbiamo fatto una riunione del Distretto nella quale è stata ribadita dai soggetti che ne fanno parte la volontà che il distretto resti e funzioni». «Le precondizioni emerse per raggiungere tale obiettivo – continua Giurlani - sono le seguenti: 1) la Regione Toscana ci deve credere, 2) individuazione delle risorse necessarie a dare un’organizzazione al distretto, che non può funzionare con attività solo a titolo volontario, 3) tutti i soggetti coinvolti, in particolare le associazioni di categoria, devono crederci e partecipare con convinzione. Soddisfatte queste tre condizioni, ritengo che il distretto rurale sia uno strumento importante a disposizione su cui far leva per realizzare una politica di rilancio della floricoltura nel contesto di un piano regionale del florovivaismo». «Siccome con l’accordo di programma sul mercato dei fiori di Pescia la Regione Toscana ha ribadito che vuole rilanciare la floricoltura e che tale mercato è strategico – conclude il sindaco di Pescia -, è auspicabile che venga rilanciato anche il Distretto. La seduta del 2 febbraio, a cui parteciperà l’assessore regionale all’agricoltura Remaschi, sarà l’occasione per capire meglio le intenzioni della Regione a questo proposito». 
E a che punto è l’attuazione dell’accordo con la Regione sul mercato dei fiori, con riguardo in particolare alla cabina di regia in esso prevista?
«Subito dopo il distretto convocherò la prima cabina di regia del mercato dei fiori e in quella occasione porterò una bozza del regolamento per l’approvazione. Poi lanceremo un avviso pubblico rivolto ai privati interessati alla struttura del mercato, ex Comicent, per progetti compatibili, cioè che non interferiscano con il commercio di fiori e piante all’ingrosso. I privati che avranno le caratteristiche idonee e saranno quindi selezionati verranno anche inseriti nel percorso della cabina di regia, che dovrà elaborare il piano di sviluppo del mercato in pochi mesi, con al centro la filiera floricola, ma spazio anche ad attività collaterali redditizie».
A breve sarà convocato anche il cosiddetto Pav, il tavolo tecnico per una Pescia agricola e verde-floreale da poco costituito. Quali saranno i suoi primi compiti?
«Il prossimo tavolo tecnico, che sarà coordinato dall’assessore comunale all’agricoltura Marco Della Felice, ma a cui sarò presente anch’io in qualità di sindaco, servirà innanzi tutto a darsi un’organizzazione e a nominare il presidente del tavolo. Dopo di che incominceranno ad essere affrontati alcuni contenuti specifici, sui quali il referente è l’assessore Della Felice».
 
Lorenzo Sandiford

ragnaia boboli

Intervista all’architetto Giorgio Galletti dopo il suo intervento sulle “Cacce nei parchi medicei” al ciclo di conferenze organizzate al Teatro del Rondò di Bacco di Firenze dall’Associazione “Per Boboli”. Orme di ragnaie alle Cascine di Poggio a Caiano e nei giardini di Boboli, Villa la Quiete, Certosa di Pontignano, Villa di Geggiano, Villa il Casale, Villa di Sestano. Più diffusi gli uccellari, a cominciare dai celebri cipressi di San Quirico d’Orcia. Da Galletti un chiarimento storico su pareggiate e arte topiaria.

Nell’ambito del ciclo di incontri organizzati dall’Associazione “Per Boboli” al Teatro del Rondò di Bacco in piazza Pitti a Firenze, ieri l’architetto Giorgio Galletti ha tenuto una conferenza sul tema “Le cacce nei parchi medicei”. Un’occasione, come ha spiegato introducendo la relazione di Galletti Eleonora Pecchioli, presidente dell’associazione organizzatrice dell’appuntamento, per rimeditare sull’impatto delle pratiche venatorie in certe fasi dell’evoluzione dell’architettura dei giardini. Impatto che si è fatto sentire, ha ricordato Eleonora Pecchioli, anche nel Giardino di Boboli.
Fra le strutture venatorie su cui l’architetto Galletti si è soffermato con più dovizia di riferimenti, citazioni di fonti ed esemplificazioni, dopo aver illustrato le varie funzioni della caccia nel Medioevo e nel Rinascimento, vi sono senz’altro le ragnaie. Vale a dire dei boschetti fitti di alberi tra i quali venivano stese le reti per la cattura degli uccelli. Diversamente dall’uccellare, di cui pure ha parlato Galletti e che era costituito solitamente galletti architettoda una radura in una macchia boscosa, la ragnaia aveva un andamento lineare e molto spesso era posizionata accanto a un piccolo corso d’acqua che attirava i volatili. La natura delle ragnaie non è sempre ben compresa. Esse, come hanno sottolineato sia Pecchioli sia più estesamente Galletti, hanno anche una forte valenza ornamentale: all’insegna della triade vitruviana firmitas, utilitas, venustas (solidità, funzionalità, qualità estetica).
«Giovanni Antonio Popoleschi nel suo trattato La Ragnaia (risalente a circa la metà del XVI sec.) – ha detto a Floraviva l’architetto Galletti dopo la conclusione della sua conferenza - scrive: “la ragnaia, per mia oppinione è una delle più belle e migliori commodità che possa avere una possessione di qual si voglia gentiluomo, avvengachè questa, oltre al far bella vista e ornamento alla villa tua, se è posta in luogo accomodato, ti tiene, oltre al piacere che dura molti mesi dell’anno, la casa abbondante tutto il tempo che si uccella”». E si trovano diverse citazioni di questo genere nella letteratura quattrocentesca e cinquecentesca, a cominciare da un passo di Machiavelli riferito da Galletti durante la sua relazione. «Quindi – come sintetizza lui - la ragnaia è un locus amoenus e ornamento per il giardino, non solo luogo di caccia».
Che ruolo hanno (avuto) e quanto pesano le ragnaie nel disegno complessivo del Giardino di Boboli?
«Nel giardino di Boboli ne sono rimaste solo pochissime, dopo i tentativi ottocenteschi di trasformare il giardino in stile all’inglese. Se guardiamo invece la planimetria di Michele Gori (1709) e quelle di epoca lorenese si nota che esse occupavano tutto il lato sud lungo le mura della Pace, lo spazio fra l’imbocco del viale dei Cipressi e l’Isola (ora in gran parte distrutte per l’apertura del vale dei platani in epoca napoleonica e la trasformazione in boschetti con viali in curva). Il Soldini (Il Reale Giardino di Boboli, 1789) scrive in proposito: “terminato il filare dei cipressi, sentesi ricreare la vista al mirare una folta Ragnaia, che forma come una continuata muraglia a disegno…”. Un’altra ragnaia era al margine del perduto labirinto nord, sotto il giardino Botanico di Sopra. L’Anfiteatro secentesco era delimitato da ragnaie. Quindi nella redazione secentesca le ragnaie caratterizzavano in modo inequivocabile il Giardino di Boboli barocco».
La ragnaia e altri portati della caccia così come praticata nel Medioevo e nel Rinascimento in che misura hanno inciso nel paesaggio toscano? Cosa resta oggi?
«Oggi le ragnaie sono praticamente scomparse, salvo rari casi di giardini storici. Sussiste la traccia del Ragnaione delle Cascine di Poggio a Caiano (dette impropriamente di Tavola). Si sono conservate tracce di ragnaie a Boboli, nel Giardino di Villa la Quiete (per ora non visitabile), nel giardino della Certosa di Pontignano (vicino a Siena, visitabile) nel giardino della Villa di Geggiano (a Castelnuovo Berardenga, visitabile con permesso), nel giardino della Villa il Casale (a Sesto Fiorentino, non visitabile) e, pressoché integrale, nel giardino della Villa di Sestano (sempre a Castelnuovo Berardenga, forse visitabile con permesso). Sicuramente ne esistono altre, che io non conosco. La parola ragnaia ricorre invece in molti toponimi. Quindi erano diffuse sul territorio, ma oggi non sono più distinguili o perdute. Si possono invece riconoscere uccellari o roccoli sparsi nella campagna toscana, dal momento che sono caratterizzati da un boschetto isolato. Famoso è quello di cipressi presso San Quirico d’Orcia. Altri uccellari: Castelnuovo Tancredi (Buonconvento), Villa di Celsa (Siena, solo tracce), Borgo Scopeto (Castelnuovo Berardenga, integro), piccoli roccoli nei dintorni di Firenze».
Nella relazione ha citato numerose varietà vegetali utilizzate per le ragnaie, ci può ricordare le principali?
«Sebbene i trattati indichino numerose varietà, le ragnaie di Boboli, quella della Quiete e quella di Sestano sono composte da leccio nella parte alta e da arbusti sempreverdi nella parte bassa (lentaggine, alloro, fillirea, alaterno, lentisco). Nell’Italia settentrionale le strutture per l’uccellagione sono composte prevalentemente di carpino».
Per finire, una curiosità: che relazione c’è, se c’è, fra le tecniche di pareggiamento delle piante delle ragnaie di cui ha parlato e l’arte topiaria in cui oggi i vivaisti pistoiesi eccellono a livello internazionale?
«La pareggiata (orizzontale e verticale) è per me all’origine della palissade dei giardini francesi. Maria de’ Medici riprese il modello di Boboli per il Giardino del Lussemburgo. In realtà l’arte topiaria è di origini antichissime e si riferisce a forme che imitano figure. Certamente l’esperienza del dominare la pianta e mantenerla in forma può essere connessa con la tradizione topiaria. La struttura formale dei giardini rinascimentali e barocchi ha le sue radici in tradizioni di taglio e di governo assai consolidate. Purtroppo questa tradizione fu notevolmente alterata nel dopoguerra con l’introduzione della motosega che comportato danni vastissimi soprattutto ai lecci, come nel caso di Boboli o di Villa Medici a Roma. I giardinieri pistoiesi sicuramente hanno saputo mantenere molte tecniche tradizionali che non hanno a che vedere con la capitozzatura».

Lorenzo Sandiford