Filiera olivo-olio

L’epidemia della Xylella fastidiosa continua ad espandersi a macchia d’olio. Tra le nuove aree colpite c’è la Corsica, dove ha colpito lecci e olivi, destando non poche preoccupazioni nell’associazione dei coltivatori corsi, dal momento che l’olivicoltura, con un giro d’affari intorno a 3 milioni di euro, è un comparto significativo dell’agricoltura dell’isola. Anche se, per il momento, come spiegato nei giorni scorsi da Agrisole, non sono stati toccati uliveti produttivi, ma solo alcuni esemplari di olivo ornamentali di alcune rotatorie. In generale, le piante colpite sono olivi selvatici e lecci.
Nel frattempo, viene segnalato sempre su Agrisole l’imminente avvio in Puglia dei bandi di sostegno ai reimpianti per le aziende olivicole delle zone danneggiate dalla Xylella, nell’ambito delle misure 5.2 (ripristino del potenziale produttivo attraverso la sostituzione degli olivi danneggiati o distrutti) e 4.1 (sostegno agli investimenti strutturali degli olivicoltori delle zone colpite) del Programma di sviluppo rurale regionale, non appena pubblicato il verbale del Comitato fitosanitario sulle varietà di olivi resistenti al batterio, che dovrebbero essere le cultivar FS 17 (Favolosa) e Leccino (vedi sulla questione nostra intervista).

Redazione

Le quantità di oli d’oliva dell’Unione europea venduti in Paesi extra-europei nell’annata 2017-18 si ridurranno di circa il 5% rispetto all’anno scorso, passando da 558 mila a 531 mila tonnellate. Un risultato che dipenderà in gran parte da un calo produttivo pari a circa -14% in volume da parte della Spagna, il maggiore produttore ed esportatore mondiale. Mentre la forte ripresa dell’Italia, che dovrebbe registrare quest’anno livelli produttivi raddoppiati rispetto alla disastrosa annata precedente e rafforzare le sue quote di mercato extra-europee soprattutto negli Stati Uniti d’America e in Giappone, non basterà a compensare l’arretramento spagnolo.
Queste sono almeno le stime degli uffici statistici della Commissione europea riportate nei giorni scorsi da Agrisole. Stime che indicano per l’annata olearia in corso una crescita dell’import di oli d’oliva extraeuropei in Ue di oltre il 70 per cento sull’anno precedente, grazie a 157 mila tonnellate di importazioni contro le 91 mila del 2016-17. Gran parte di questo olio d’oliva importato è proveniente dalla Tunisia, dove si è assistito a una notevole crescita di produzione, più che raddoppiata rispetto all’anno scorso: da 100 mila a 220 mila tonnellate.

Redazione

Intervista sull’olivicoltura italiana a Pantaleo Greco, presidente della sezione olivicola nazionale di Confagricoltura: gli olivicoltori dovrebbero essere liberi di scegliere fra impianti intensivi, super intensivi o tradizionali, e fra cultivar autoctone o no, ma «purtroppo» la normativa italiana non lo consente; gli alberi di interesse paesaggistico devono essere a carico della comunità, non dell'agricoltore; le varietà italiane Leccino e FS 17 (Favolosa) sono resistenti alla Xylella (che a Lecce ha causato un calo produttivo del 50%) e «possono avere una marcia in più se coniugabili con sistemi colturali interessanti» (la «più vicina a questo equilibrio è la Favolosa»); «è quasi la norma» che i premi internazionali non vengano vinti da oli italiani.


C’era anche Pantaleo Greco, il presidente della sezione olivicola nazionale di Confagricoltura proveniente dalla Puglia, fra i relatori del convegno del 23 marzo sul tema “Coltivare l’olivo” organizzato dall’Unione provinciale agricoltori (Confagricoltura) di Siena in collaborazione con il Santa Chiara Lab dell’ateneo senese e l’Associazione produttori olivicoli toscani (vedi nostro servizio). Floraviva ha colto l’occasione per intervistarlo a tutto campo su alcuni temi caldi dell’olivicoltura italiana e per capire meglio la direzione delle politiche olivicole di Confagricoltura.
Nel suo intervento ha riportato alcuni dati che dimostrano con chiarezza un fenomeno ben conosciuto: poca produzione rispetto alle necessità. Mi può riassumere la situazione?
«Come dicevo prima, c’è una carenza strutturale del sistema olivicolo italiano. Siamo passati nel giro di 15 anni dalle 800 mila tonnellate dichiarate dai registri Agea all’ultima campagna in corso che si dovrebbe chiudere intorno alle 300/350 mila tonnellate…»
…solo olio d’oliva extravergine o tutto l’olio d’oliva?
«Questo è un dato che si riferisce all’intera produzione. L’industria olearia italiana ha un fabbisogno di circa 800 mila tonnellate; quindi, anche considerando un margine di errore per questi grandi numeri, il sistema olivicolo italiano non è in grado di soddisfare il sistema industriale italiano. A quei numeri a cui facevo riferimento prima bisogna inoltre detrarre una quota consistente per l’autoproduzione, che non è disponibile per l’industria olearia, e un’altra parte che è lampante, che va all’industria della raffineria per poi essere usata per sottoli».
Rispetto agli anni scorsi come è andata?
«L’anno scorso stavamo intorno alle 150/180 mila tonnellate».
Ed era peggio dell’anno precedente?
«Sì. Questo è un quadro a cui è facile dare una motivazione, perché il sistema olivicolo italiano in questi ultimi 40 anni non si è rinnovato. In Spagna sono stati fatti più piani olivicoli che hanno permesso di ristrutturare gli impianti, di renderli più produttivi e di rendere anche più economicamente sostenibile la gestione di un sistema colturale arboreo che è di per sé complesso, nonostante la Spagna abbia delle peculiarità che la penalizzano, come una certa scarsa disponibilità della risorsa irrigua. Ma la Spagna in questi anni ha avuto il coraggio di investire, di rinnovarsi, di non tutelare in maniera ideologica e demagogica l’albero di olivo. Perché un albero di olivo è un albero da frutto, che quindi come gli altri alberi da frutto deve essere considerato nella sua vitalità, nella sua vita economica, che ha un certo ciclo. E se ci sono degli alberi di un particolare interesse storico e paesaggistico devono essere tutelati per un costo della comunità ma non del singolo agricoltore».
Ecco, a livello di politiche olivicole in positivo a che cosa mirate? Intensivo o super intensivo oppure optate per un pluralismo di scelte? Insomma qual è la vostra politica olivicola?
«La nostra politica si può riassumere in una frase: l’imprenditore agricolo deve essere libero di scegliere. Quindi la libertà di scelta lo può portare al sistema intensivo, al sistema super intensivo o anche alla conservazione dell’oliveto tradizionale. La cosa importante è che deve essere libero di scegliere. Ad oggi purtroppo la normativa italiana non consente queste libertà di scelta. C’è una legge del 1951, la n. 144, che vieta l’estirpazione della piante di olivo [con qualche eccezione, ndr], legge che aveva un senso sessant’anni fa e che adesso ha perso il suo senso».
E riguardo alle varietà di piante da utilizzare per chi vuole infittire gli uliveti o fare nuovi impianti? Qual è la vostra posizione: solo italiane oppure no?
«Sulle varietà di piante sono aperto come lo sono per il sistema colturale. Ma faccio un esempio per spiegarmi: la provincia di Bari è la provincia a maggiore superficie cerasicola d’Italia, dove la cultivar importante è la [ciliegia] Ferrovia. La cultivar Ferrovia non è una cultivar italiana, ma tedesca. Quindi c’è la storia della cerasicoltura italiana [coltivazione di ciliegie, ndr] che in realtà si poggia non su una cultivar autoctona italiana, ma su una cultivar tedesca. Quindi ben venga la selezione di ecotipi autoctoni, però non dobbiamo nemmeno essere culturalmente non aperti a selezionare degli ecotipi solo perché sono stati sviluppati in un vivaio spagnolo o cileno. Ormai il mondo non ha confini…»
…non pensa quindi che possa essere un volano dal punto di vista del marketing puntare sulle cultivar italiane?
«Sì, sì, sicuramente. Però nell’esempio che facevo prima il volano ha fatto girare tanto velocemente che adesso la Ferrovia è considerata una cultivar italiana, ma italiana non è».
Passando ai campi varietali della Provincia di Lecce di cui ha parlato, di che si tratta?
«Come ben si sa, dal 2013 abbiamo la presenza, per la prima volta in Europa, del batterio Xylella fastidiosa, e proprio per andare incontro alle esigenze degli olivicoltori sono stati realizzati dei campi varietali dove sono sotto osservazione circa 300 cultivar provenienti da tutto il mondo per valutare la tolleranza alla Xylella. Perché la tolleranza alla Xylella da ora ai prossimi anni sarà la vera discriminante della scelta colturale. In base alle linee di mesoclima, cioè agli andamenti climatici di tutte le zone del bacino del Mediterraneo, si sa con un buon grado di certezza dove il batterio arriverà e dove non arriverà. E’ auspicabile che già da adesso si inizi a fare una politica di scelta varietale oculata e indirizzata in questo senso».
Quindi in questi campi fate solo monitoraggio. Sta emergendo già qualcosa di interessante?
«Ci sono due lavori scientifici pubblicati che indicano il Leccino e l’FS 17, la Favolosa, come varietà resistenti alla Xylella…»
…queste sono italiane, vero?
«Sì, sono italiane».
Ci sono anche varietà spagnole resistenti?
«No».
Quindi da questo punto di vista le cultivar italiane possono avere una marcia in più?
«Possono avere una marcia in più se sono coniugabili con dei sistemi colturali interessanti. Ad oggi la varietà più vicina a dare questo equilibrio è la Favolosa».
Un’altra sua osservazione che mi ha colpito è quando ha detto che gli oli d’oliva italiani non sono i migliori e che ai premi internazionali a vincere a volte sono oli stranieri. Conferma?
«Assolutamente. Non è “a volte” che li vincono gli oli non italiani, è quasi la norma che i premi internazionali non vengano vinti da aziende italiane. Perché esistono tante varietà, che hanno tante peculiarità, e l’importante è che siano raccolte, lavorate e conservate bene. Poi, sa, il panel disegna il profilo organolettico di un olio con prevalenza di pomodoro, carciofo, mandorle ecc.: tutte queste caratteristiche che lo delineano. Però l’importante è che sia un olio lavorato ed estratto bene. Poi sulle varietà io, ripeto, non ho preconcetti di fondo. L’olio migliore è quello buono che costa meno».
Quanto ha inciso la Xylella sui cali produttivi degli ultimi anni in Puglia? E’ stata fatta una valutazione precisa?
«Guardi, la provincia di Lecce produce quanto l’intera Regione Toscana, come dati. Siamo intorno al 10% della produzione nazionale. In provincia di Lecce c’è stato un calo del 50%».
Da quando è iniziata la Xylella a ora?
«In tre anni, sì».

Lorenzo Sandiford

Al convegno “Coltivare l’olivo” del 23 marzo di Confagricoltura Siena le ricette del prof. Riccardo Gucci per rilanciare l’olivicoltura italiana alzando i livelli produttivi: «rinnovo degli oliveti in aree potenzialmente competitive» (il 37% degli ettari olivati) con impianti a maggiore densità, olivi dalle chiome libere e voluminose, più superfici esposte, raccolta meccanizzata e irrigazione; politiche che puntino sulle varietà autoctone (più di 600), ma senza veti alle aziende che scelgano super intensivo con varietà spagnole. L’Associazione produttori olivicoli toscani ha fatto sapere che Co.Agri è in cerca di olivicoltori che conferiscano quote dell’olio prodotto da commercializzare.

 
«Le condizioni che si possono trovare a livello aziendale danno veramente una casistica infinita, per cui io non escludo che ci possano essere margini ed interesse per singole aziende dove metteranno varietà spagnole e non vedo che cosa ci sia di male. Diversamente auspico che a livello territoriale, quindi parlo di Regioni, di comprensori, di Italia, manteniamo una connotazione identitaria con le nostre varietà, perché noi ne abbiamo più di 600. Quindi, se si lavora, poi usciranno anche quelle che consentono di utilizzare uliveti molto fitti». Ad esempio il prof. Tiziano Caruso, docente del Dipartimento di Scienze Agrarie e Forestali dell’Università di Palermo, ha guidato «un lavoro sulle collezioni di germoplasma presso dei campi regionali, dove hanno, credo, un 40/50 varietà siciliane, e tra quelle hanno individuato due o tre genotipi che presentano caratteristiche di produttività, e anche molto interessanti dal punto di vista della qualità dell’olio, che si adattano all’altissima densità».
E’ quanto risposto da Riccardo Gucci, professore ordinario presso il Dipartimento di Scienze agrarie, alimentari e agro-ambientali dell’Università di Pisa, ad una domanda postagli da Floraviva per chiarire la sua posizione riguardo alle piante da utilizzare per rinnovare gli oliveti italiani, al termine del convegno “Coltivare l’olivo”, tenutosi il 23 marzo al Santa Chiara Lab dell’Università di Siena. Un incontro organizzato dall’Unione provinciale agricoltori (Upa) di Siena (Confagricoltura) in collaborazione con il Santa Chiara Lab e l’Associazione produttori olivicoli toscani (Apot), a cui sono intervenuti anche il prof. di Bruno Bagnoli, docente di Entomologia applicata ai prodotti agroalimentari e alla viticoltura del Dipartimento per l’innovazione nei sistemi biologici agroalimentari e forestali dell’Università della Tuscia di Viterbo, con una relazione intitolata “Principali avversità biotiche dell’olivo e strategie di controllo ecosostenibile”, il presidente della Sezione nazionale olivicola di Confagricoltura Pantaleo Greco e il vice presidente dell’Apot Orlando Pazzagli.
Tutto l’intervento di Riccardo Gucci, che non si è limitato al tema “Evoluzione dei modelli di impianto e nella gestione degli oliveti” ma ha esaminato la situazione generale, ha perorato la causa del rinnovamento di una parte almeno degli uliveti tradizionali. «Le esigenze di un’olivicoltura moderna – ha spiegato – sono le seguenti: a) ridurre i costi di produzione, b) aumentare la produzione, c) migliorare la qualità dell’olio, d) ridurre l’impatto ambientale, e) dare valore al prodotto». Che cosa si è fatto in Italia e in Toscana negli ultimi 20 anni da questo punto di vista? Sul punto c), cioè la qualità dell’olio, qualcosa si è fatto e non solo in Toscana, nella quale non siamo messi male neanche sul punto e) del dare valore al prodotto. Ma del punto b), aumentare la produzione, «ce ne siamo dimenticati». 
Ed è un peccato. Infatti «l’Italia è il 2° produttore al mondo, e non c’è possibilità di recuperare sulla Spagna», ma si stanno pericolosamente avvicinando a noi anche altri Paesi, ad esempio del Nord Africa. Con il rischio di perdere quella leadership che abbiamo anche grazie all’importante industria della trasformazione. Alcuni dati presentati nelle slide di Gucci riassumono bene questa incapacità dell’olivicoltura italiana di affrontare la sfida della produzione. Infatti la media della produzione di olio nel decennio 1989-1999 è stata in Italia di oltre 540 mila tonnellate di olio d’oliva, ma nel decennio successivo è calata a 476 mila tonnellate (-12%); e nel periodo tra il 2013 e il 2017 è stata ancora più bassa: 376 mila tonnellate. In Toscana il calo è stato ancora peggiore: da una media di 19 mila tonnellate nel decennio 1989-1999 si è passati a una media di poco superiore a 14 mila e 500 tonnellate (-24%). Questi dati in un contesto in cui nel mondo, parallelamente, la produzione è salita del 38% (e il consumo del 42%). E per quanto riguarda le superfici degli uliveti, la situazione adesso in Italia è che abbiamo 1 milione e 130 mila ettari di superfici olivate e 160 milioni di alberi, di cui il 67% in collina e di cui solo il 37% potenzialmente competitivi (con il restante 63% marginale). Mentre in Toscana gli ettari olivati sono 95 mila e gli alberi 15 milioni. 
Come mai tale calo produttivo mentre nel mondo la produzione cresceva? Il problema principale dell’olivicoltura italiana, ha spiegato Gucci, è che produciamo con impianti obsoleti, cosa che non succede ad esempio in viticoltura o frutticoltura. L’uliveto tradizionale è ancora la tipologia prevalente in Italia e Toscana, anche se ha iniziato a diffondersi un «processo di intensificazione colturale». I nostri oliveti tradizionali sono caratterizzati, fra l’altro, da bassa densità, alberi vecchi, scarsa meccanizzazione. Il che significa bassa produttività (la media è di 1 kg/ 1,2 kg d’olio a pianta), alti costi e anche più problemi fitosanitari. Ma non siamo costretti a restare legati a quel modello tradizionale di uliveto, ha sostenuto Gucci: esistono «soluzioni alternative». Ad esempio oliveti ad alta densità o intensivi, che sono caratterizzati da 350/600 piante a ettaro (secondo alcuni anche 700/800), contro le 150 o poco più degli uliveti tradizionali. Oppure gli impianti ad altissima densità o super intensivi, con ben oltre 1000 piante ad ettaro. Questo aumento del numero delle piante ad ettaro consente di accrescere la produttività. 
Ma la produttività dipende in ultima analisi da «quanta superficie fogliare e gemme potenzialmente a fiore si mettono in un ettaro di uliveto». Quindi contano anche altri fattori, come le chiome degli olivi, che più sono lasciate libere e voluminose, con tecniche di potatura minima, più sono produttive (e diminuiscono anche i costi di potatura). Negli impianti moderni ad alta densità si può arrivare a volumi di chiome e a superfici fogliari esposte ad ettaro molto maggiori che negli uliveti tradizionali. Altri incrementi di produttività sono legati all’utilizzo di metodi meccanici per la raccolta delle olive, che è la principale voce di costo. Ed essi presuppongono altezze di alberi inferiori a certi tetti (4/5 metri). Inoltre molto importante per la produttività è anche l’irrigazione, che serve ad aumentare la produzione, specialmente in zone siccitose, ma può incidere anche sui parametri qualitativi dell’olio prodotto, ad esempio sulla concentrazione dei fenoli. Tutti aspetti e fattori aggiuntivi di produttività su cui la relazione si è soffermata.
«Non in tutto il milione e 130 mila ettari di superfici olivate si può fare l’intensivo o il super intensivo», ha poi precisato Gucci, «ad esempio in Toscana circa un 30% dell’olivicoltura tradizionale potrebbe essere modernizzata, cioè ha le condizioni strutturali per farlo». Ma la sua tesi è che «nelle aree potenzialmente competitive» (stimate a livello nazionale a circa il 37% delle superfici olivate totali) il rinnovo degli oliveti vada fatto. Non si può continuare a produrre su impianti obsoleti. Anche perché, sostiene, il problema della necessità di tutelare il paesaggio olivicolo di alto pregio è sovrastimato: molti degli uliveti che si vogliono preservare «hanno solo 70/80 anni e non sono quindi secolari». Certo ci sono anche casi dal grande valore storico, come certi oliveti nei monti pisani «risalenti all’epoca delle repubbliche marinare», ed esistono zone come la Liguria dove gli uliveti sono tutti giocoforza su terrazzamenti e l’unica cosa che si può fare è «ristrutturare i boschi di olivi non più gestiti», anche per impedire le frane. Ma in generale c’è ampio spazio per rinnovare gli uliveti italiani in modo da renderli più produttivi. Il risultato auspicato da Gucci è una coesistenza di oliveti tradizionali e moderni a seconda dei contesti.
Nel suo breve intervento, il vice presidente di Apot Orlando Pazzagli ha fatto sapere che la società Co.Agri, creata insieme alla cooperativa Terre dell’Etruria allo scopo di favorire la commercializzare dell’olio, è a disposizione di quei produttori di olio che vogliano conferire loro anche solo quote eccedenti della loro produzione, anche se i prezzi sono un po’ inferiori a quelli che forse si riescono a spuntare a Firenze e Siena. «Quest’anno stiamo liquidando a 8 euro – ha aggiunto – ma per quella quota di prodotto in eccedenza che l’anno successivo non ha valore può essere uno sbocco» interessante. «Naturalmente – ha precisato – a dicembre-gennaio gran parte dei giochi per la commercializzazione sono fatti» e comunque non si può aspettare maggio per conferire. 
 
Lorenzo Sandiford

Il 23 marzo a Siena convegno su come “Coltivare l’olivo” organizzato dall’Unione provinciale agricoltori in collaborazione con Santa Chiara Lab dell’Università di Siena e Associazione produttori olivicoli toscani. Interviene Pantaleo Greco, presidente della Sezione nazionale olivicola di Confagricoltura.

Un’occasione per approfondire le più moderne tecniche di coltivazione dell’olivo, esaminarne le criticità e valutare le opportunità nei mercati italiano ed esteri. E’ il convegno “Coltivare l’olivo” che si terrà venerdì 23 marzo, dalle ore 10, al Santa Chiara Lab in via Valdimontone 1 a Siena. Un incontro organizzato dall’Unione provinciale agricoltori (Upa) di Siena in collaborazione con il Santa Chiara Lab dell’Università di Siena e l’Associazione produttori olivicoli toscani.
Dopo i saluti e l’introduzione affidati al presidente di Upa Siena Giuseppe Bicocchi, interverrà Riccardo Gucci del Dipartimento di Scienze agrarie, alimentari e agro-ambientali dell’Università di Pisa sull’evoluzione dei modelli d’impianto e della gestione degli oliveti. Seguirà una relazione sulle principali avversità biotiche e le strategie di controllo ecosostenibile di Bruno Bagnoli del Dibaf dell’Università della Tuscia di Viterbo. Poi, ad illustrare le esigenze dei mercati, sarà il presidente dell’Apot Carlo Gabellieri, mentre successivamente Claudio Rossi, professore di Nutraceutical and Food Chemistry all’Università di Siena, illustrerà le iniziative, i progetti e le innovazioni del Santa Chiara Lab. Dopo il dibattito, conclusioni affidate a Pantaleo Greco, presidente della Sezione nazionale olivicola di Confagricoltura.

Redazione

L’appuntamento sull’olivicoltura inizialmente fissato per il 1° marzo a Lamporecchio (Pistoia) e poi annullato a causa del maltempo si svolgerà domani alle 17 sempre alla cooperativa Montalbano Olio & Vino (in via Giugnano 135).
Si tratta della quarta tappa del ciclo “Pronti all’incontro – per la rinascita dell’olivicoltura toscana”, organizzato dal Consorzio per la tutela dell’Olio extravergine di oliva Toscano Igp. A salire sul ring domani, accompagnati dall'arbitro Fabrizio Filippi, presidente del Consorzio Olio Toscano Igp, saranno Rosanna Matteoli e Raffaello Lippi della Coop. Montalbano, Antonio Belcari di Scienze Agrarie a Firenze, Riccardo Gucci di Scienze Agrarie a Pisa e Giampiero Cresti, direttore della cooperativa Olivicoltori toscani associati (Ota) (con frantoio a Cerbaia, nei pressi di Scandicci). Un’occasione per «analizzare il settore e fornire gli strumenti di un nuovo modello olivicolo». 
«Parlare di olio, olivi e uliveti in Toscana è un compito relativamente facile – dice Fabrizio Filippi nel video su Facebook che introduce l’incontro – […] parlare invece dell’olivicoltura toscana è tutta un’altra cosa. L’olivicoltura toscana è infatti oggi un incredibile paradosso, in cui la domanda cresce, l’offerta cala; la voglia di olio toscano nel mondo cresce, ma la nostra produzione sta drammaticamente calando. Per continuare con i paradossi si potrebbe perfino arrivare a dire che l’olivicoltura in Toscana, quella vera, non esiste. […] L’olivicoltura è il frutto di un’eredità storica che se da una parte ci ha regalato un prodotto che è un’icona internazionale dall’altra ci ha lasciato un sistema arretrato e soprattutto inefficiente, basato su una coltivazione di complemento […] infatti nella fattoria toscana l’ulivo è sempre andato a colonizzare terreni marginali».
 
Redazione