Dopo i forti cali del periodo 2010-2012 negli ultimi 3-4 anni è incominciata una lenta ma costante ripresa. Il direttore dell’Irpet Casini Benvenuti: il settore agricolo ha invertito la tendenza e può tornare ad essere protagonista. Se si esclude l’alimentare, la provincia di Pistoia è la regina dell’agricoltura toscana per la produttività (con un valore aggiunto a lavoratore più del doppio di quello medio agricolo) e ancor più alla voce esportazioni.
«Nel confronto con la Toscana del 2006 l'agricoltura e l'agroalimentare toscano hanno mantenuto pressoché inalterati i livelli di produzione e valore aggiunto. Ed è un risultato maturato soprattutto negli ultimi tre-quattro anni, nei quali il comparto ha saputo recuperare i bruschi salti all'indietro del triennio 2010-2012, autentico epicentro della crisi».
E’ la fotografia dei dati Irpet diffusa dall’assessorato all’agricoltura della Regione Toscana durante l’incontro di stamani di presentazione della Conferenza regionale dell’agricoltura e dello sviluppo rurale in programma la prossima settimana a Lucca, che avviene appunto a distanza di 11 anni dalla precedente. I dettagli del confronto statistico con il 2006 (anno della ultima conferenza) saranno illustrati nella giornata di apertura dell'assise del 5-6 aprile, ma oggi sono stati anticipati alcuni dati.
Riguardo alla produzione, «il valore aggiunto di agricoltura e agroalimentare toscano – è riportato nel comunicato stampa diffuso oggi - ammonta a 3,2 miliardi di euro, di cui 2 miliardi (pari al 70%) da attribuire alla parte strettamente agricola. Tale valore è prodotto in misura sempre maggiore dalle coltivazioni legnose (in primis la viticoltura, la produzione di vino è infatti aumentata del 20% nel decennio). Significativo anche il contributo delle produzioni zootecniche (per un valore di oltre 500 milioni di euro), con una redistribuzione tra le tipologie di allevamenti: in aumento pollame e suini in diminuzione bovini, ovini e caprini». Come precisato in alcune tabelle presentate ieri da Irpet il valore aggiunto dell’agricoltura toscana si aggira intorno a un peso del 2,5% su quello dell’intera economia regionale. E se guardiamo la distribuzione provinciale del valore aggiunto agricolo, spicca quello della provincia di Pistoia, che si attesta infatti al 26% del valore aggiunto totale delle dieci province della regione (ed è presumibilmente da imputare quasi completamente al florovivaismo in senso esteso, cioè a comprendere in primis il vivaismo e poi la floricoltura).
Per quanto riguarda imprese e occupati «sono circa 72.000 le imprese agricole della Toscana. La tendenza dell'ultimo decennio è stata quella di una diminuzione delle aziende, ma anche di una loro crescita dimensionale: la dimensione media aziendale è passata da 6,5 a 10,5 ettari. Gli occupati in agricoltura sono attualmente 51.000. Anche in questo caso vi è stata una contrazione rispetto al 2006 (-12%) ma dal 2012 il numero di occupati è in costante crescita».
Infine «l'export dell'agroalimentare ha un valore di 1,8 miliardi di euro e corrisponde al 7% delle esportazioni toscane, al 6% delle esportazioni agroalimentari italiane. All'interno di questi dati si nota una crescita costante dell'export di prodotti agroalimentari, che rappresentano la fetta decisamente più consistente (1,6 miliardi) rispetto a quella dei prodotti agricoli (221 milioni di euro). Le esportazioni hanno come paese privilegiato gli Stati Uniti, seguiti da Germania, Regno Unito, Francia e Canada». Su questo fronte, come riportato dalle tabelle dell’Irpet presentate ieri, se si distingue l’agricoltura (prodotti di colture, animali e prodotti di origine animale, prodotti forestali, prodotti della pesca) dall’agroalimentare (carne e pesce lavorati, frutta e ortaggi lavorati e conservati, oli e grassi, prodotti dell’industria lattiera, prodotti da forno e altri prodotti alimentari e bevande) risulta che l’80% dell’export agricolo è concentrato nella provincia di Pistoia.
«A livello generale – ha commentato per Floraviva Stefano Casini Benvenuti, direttore dell’Irpet – metterei in evidenza che l’agricoltura negli ultimi 3 anni ha avuto un’inversione di tendenza significativa su più piani: sul piano dell’immagine, su quello qualitativo, ma anche sul piano quantitativo, visto che sono aumentati gli addetti (e in altri settori questo non è successo). I numeri sono piccoli, però è interessante l’inversione di tendenza».
«Naturalmente – ha precisato Casini Benvenuti - questo può essere in parte dipeso anche dalla crisi di altri settori, ma ci sono attività agricole con elementi d’innovazione e ricerca importanti. Tutto questo fa sì che sia un settore che può tornare ad essere protagonista, anche per i suoi legami con il resto dell’economia. E poi per un aspetto che per l’agricoltura è sempre stato importante e che ora lo è diventato ancora di più: le ricadute sulle esternalità. Cioè l’agricoltura ha effetto sull’ambiente, sul territorio, per cui è importante avere anche piccoli appezzamenti in cui persone magari in pensione occupano un pezzo di territorio. E soprattutto sul paesaggio perché garantiscono un paesaggio toscano che ha degli effetti decisivi su tutta l’economia».
«Se si guarda la distribuzione della produzione agricola e delle esportazioni – ha aggiunto il direttore dell’Irpet - emergono due aree: una grande, che è il sud della Toscana, che è fortemente agricolo e con molti lavoratori, ma con una produttività media per lavoratore più bassa di quella regionale; e poi spicca Pistoia con il florovivaismo, che ha un numero di addetti non banale, ma emerge soprattutto per la produttività. Basti pensare che il valore aggiunto medio per lavoratore agricolo in Toscana è di 44 mila euro a testa, mentre a Pistoia siamo a 107 mila. Quindi è un settore forte. Le piante sono dal punto di vista della produzione, dell’immagine e del valore uno degli elementi fondamentali della nostra agricoltura».
Alla presentazione a Firenze della Conferenza regionale di settore che si terrà il 5 e 6 aprile a Lucca l’assessore Remaschi ha sottolineato le parole chiave della nostra agricoltura: qualità, innovazione e sviluppo. Al Commissario europeo dell’agricoltura Hogan saranno chiesti criteri di assegnazione delle risorse della Pac post 2020 non più centrati sulle superfici agricole. L’assessore ribadisce la sinergia positiva fra agricoltura e turismo all’insegna del paesaggio toscano.
«Sarà una due giorni importante, viste presenze istituzionali quali il Commissario Hogan, il ministro dell’agricoltura Martina, Paolo De Castro, il presidente della Regione Enrico Rossi, oltre alle presenze delle organizzazioni professionali e gli attori principali della nostra filiera agroalimentare. Una due giorni in cui ci concentreremo sulle parole chiave su cui stiamo lavorando: qualità, innovazione e sviluppo».
Così l’assessore regionale all’agricoltura Marco Remaschi ha illustrato oggi a Firenze nella sede della Giunta regionale, al cospetto del gotha dell’agricoltura toscana, la prossima Conferenza regionale dell’agricoltura e dello sviluppo rurale, che si svolgerà a Lucca dal 5 al 6 aprile con il titolo “Obiettivo terra, agricoltura di qualità, innovazione e sviluppo intelligente delle aree rurali” (vedi nostro articolo). Un’occasione in cui il mondo agricolo toscano e non solo si incontrerà per fare il punto sul suo stato di salute e per gettare le basi su cui lavorare nei prossimi anni. E questo davanti, appunto, al Commissario europeo per l'agricoltura e lo sviluppo rurale Phil Hogan - che resterà in Toscana anche il 7 aprile per partecipare a Firenze all’inaugurazione dell’anno accademico dei Georgofili -, cioè a colui che tirerà le fila della nuova Politica agricola comunitaria, la cosiddetta Pac post 2020, in vista della quale sono iniziate le consultazioni a partire dallo scorso febbraio.
«Noi dobbiamo mettere in campo – ha detto Marco Remaschi prima dell’inizio della presentazione della Conferenza agli esponenti del mondo agricolo - delle politiche che tendano a rafforzare il lavoro delle nostre imprese agricole, delle azioni che siano più performanti nel contesto della globalizzazione dei mercati. Dobbiamo capire come si può migliorare l’aspetto dell’approccio ai mercati, facendo reti d’impresa, tramite il mondo della cooperazione o le organizzazioni dei produttori, e quali siano le politiche da intraprendere con l’Europa in relazione alla Pac post 2020, perché se alcuni criteri di ripartizione delle risorse finanziarie dipendono principalmente dalla sau, la superficie agricola utilizzata, questo è penalizzante per la Toscana e per l’Italia e quindi dobbiamo farlo presente con forza al ministro Martina, ma anche all’Europa». «Altri devono essere i criteri sui quali ci dobbiamo misurare – ha continuato Remaschi - e li dobbiamo concordare con gli altri Paesi membri. Abbiamo tempo ma ci dobbiamo lavorare. E poi dobbiamo fare in modo che ci sia anche da parte del mondo degli agricoltori un cambio culturale: dobbiamo favorire il ricambio generazionale degli agricoltori ma dobbiamo riprendere anche a investire e cercare di rendere le nostre aziende più competitive sui mercati».
«La Toscana, che punta da sempre sulla qualità delle sue produzioni, che sono legate al nostro paesaggio, al nostro territorio, e che ha un microclima particolare, - ha detto Remaschi - deve insistere a fare della qualità delle produzioni e della loro salubrità un valore aggiunto e deve anche educare il consumatore finale per valorizzare ulteriormente alcune filiere. Mi viene in mente ad esempio quella olivicola, su cui stiamo lavorando ma senza aver raggiunto determinati livelli che sono necessari per fare non solo apprezzare il nostro olio a livello mondiale ma per permettere ai nostri agricoltori di investire, cosa che è stata fatta con grandi risultati nella viticoltura».
Sollecitato sulle aggregazioni dai giornalisti, Remaschi ha risposto: «dobbiamo affrontare un mercato globale, ogni singolo agricoltore chiaramente non ce la può fare da solo. C’è la grande distribuzione che è un’interfaccia importantissima. Noi ci dobbiamo presentare ai mercati globali con un’offerta di produzioni che possono essere soltanto di grande qualità. Noi non possiamo lavorare sulla quantità, saremmo perdenti e ciò vorrebbe dire declinare a morte certa le imprese agricole toscane. Noi facciamo grande vanto del nostro paesaggio, anche l’agricoltura deve rispettare questo approccio. Non è facile, ma c’è la consapevolezza di quanto il made in Toscana sia forte e rilevante, ci è riconosciuto e dobbiamo rafforzare questa idea».
Sollecitato sulla compatibilità fra turismo enogastronomico e agriturismo da un lato e produzione primaria dall’altro, Remaschi ha concluso affermando: «che l’agricoltura e il turismo vadano a braccetto lo diciamo da tempo. Sicuramente l’agricoltura e l’agroalimentare sono un volano per il nostro turismo, perché tanti vengono qui e apprezzano il nostro stile di vita, il buon mangiare e il buon bere che c’è in Toscana. Ugualmente il turismo è un volano importantissimo per la nostra agricoltura: quando noi vendiamo una bottiglia di olio e una bottiglia di vino, non è soltanto il contenuto della bottiglia di olio e di vino, ma c’è dentro tutta l’identità territoriale. Noi dobbiamo puntare sulla qualità».
Il direttore di Cia Toscana, in occasione dell’incontro del 27 marzo a Firenze sul tema “Agricoltura è lavoro”, illustra la situazione della nostra regione. Per Pascucci l’occupazione tiene e i casi caporalato sono pochi, ma chiede attenzione alle infiltrazioni malavitose mirate a fare acquisizioni per riciclare denaro sporco. L’abolizione dei voucher? Un errore che lascia scoperte alcune aree del lavoro agricolo.
Oltre 100 mila lavoratori considerando anche stagionali, autonomi e familiari. A tanto ammonta l’occupazione generata dall’agricoltura toscana. Ma dietro a questo dato generale si cela una casistica molto variegata, in cui è facile confondersi, causata soprattutto dalle differenti classificazioni di imprese e lavoratori agricoli a seconda delle differenti fonti normative a cui si fa riferimento.
E’ quanto emerso ieri all’incontro “Agricoltura è lavoro” organizzato da Cia Toscana a Firenze nella sala Pegaso della Giunta regionale. Nel 2015 erano 22.912 i lavoratori autonomi iscritti all’Inps, con 8.380 datori di lavoro. Fra questi, ha spiegato Cia Toscana, sono 5.002 le imprese agricole in economia, mentre risultano 3.173 coltivatori diretti che sono iscritti come autonomi ma hanno anche dipendenti. I datori di lavoro con dipendenti sono 6.425 che occupano circa 55.432 lavoratori. Il dato ancora più significativo è relativo al numero degli occupati: 2.276 imprese hanno un solo dipendente fisso, 1.269 due dipendenti, 1.541 da tre a cinque e 665 imprese da 6 a 9. E ancora: 5.751 imprese agricole hanno meno di 10 dipendenti, solo 432 da 10 a 19, 193 da 20 a 49, 38 da 50 a 99, 13 da 100 a 199 e 7 da 200 a 500 dipendenti. Inoltre ci sono i dipendenti a tempo determinato, gli stagionali e qui i numeri sono diversificati per ogni anno a seconda dell’andamento stagionale, dei cicli colturali, dei “picchi” di alcune produzioni, tutti aspetti che modificano anche in maniera significativa le giornate che vengono dichiarate.
A Giordano Pascucci, direttore di Cia Toscana, Floraviva ha chiesto un aiuto a orientarsi fra i dati, cogliendone gli aspetti più significativi, e di dire la sua sui temi di attualità: dalla cancellazione dei voucher ai casi di caporalato che hanno toccato anche l’agricoltura regionale.
«L’agricoltura – ha esordito Pascucci - è un settore che dà lavoro, dà occupazione sia a lavoratori autonomi che lavoratori dipendenti. E’ un settore che occupa quasi 100 mila complessivamente solo nella parte primaria, e poi c’è tutto l’agroalimentare. Quindi è un motore di sviluppo, è un settore produttivo che crea occupazione, crea coesione sociale, oltre che contribuire al mantenimento del territorio e dell’ambiente».
Come tipo di occupazione, se non ho letto male i dati, c’è un po’ più sbilanciamento sui lavoratori autonomi rispetto ad altri settori.
«Sì il lavoratore autonomo è un elemento importante, perché sono oltre 22 mila le imprese agricole di lavoratori autonomi e circa 30 mila i soggetti iscritti all’Inps. Chiaramente è una bella forza lavoro se consideriamo che gli occupati dipendenti sono circa 55/60 mila all’anno. Quindi è una quota importante, ma che denota la caratteristica dell’agricoltura toscana, fatta di piccole imprese diffuse nel territorio. La stragrande maggioranza delle 8 mila 300 imprese che hanno dipendenti, vale a dire oltre 6 mila, ha meno di 3 dipendenti, quindi si tratta di realtà medio-piccole dove si utilizza prevalentemente la manodopera familiare e poi ci si aiuta anche con i lavoratori dipendenti. Quelle che invece occupano prevalentemente o esclusivamente manodopera dipendente sono qualche migliaio e importanti, ma comunque anche queste medio-piccole, se paragonate agli altri settori produttivi».
Come sono stati i dati dell’occupazione agricola nel 2016 rispetto al 2015?
«Complessivamente l’agricoltura tiene dal punto di vista produttivo e anche dal punto di vista degli occupati, e in alcuni casi c’è anche una leggera crescita. Dal punto di vista economico il valore dell’agricoltura resta abbastanza stabile, al netto delle crisi congiunturali di alcuni settori tipo i cereali…»
Quanto vale ora il settore agricolo in Toscana?
«2,8 miliardi, più del 2,5% del Pil toscano. A livello nazionale siamo sotto il 2% e a livello toscano siamo tra il 2,5 e il 3%».
Passando ai temi caldi di questi giorni, qual è la posizione di Cia Toscana sulla cancellazione dei voucher?
«E’ stato fatto un errore e un danno per l’agricoltura, che viene penalizzata, una mancata opportunità per alcune categorie. Chi pensa che togliendo i voucher si crea occupazione probabilmente si sbaglia. Chi utilizzava i voucher, che in agricoltura era una percentuale modesta rispetto ad altri settori produttivi e con un uso corretto, rischia di finire nel precariato piuttosto che nella stabilizzazione del rapporto di lavoro».
Cosa vorreste, un ripristino o avete in mente un’alternativa a questo punto?
«Il ripristino mi sembra difficile nel momento in cui c’è una legge che è stata fatta qualche giorno fa. Rimane un’area scoperta. Che alcune attività diciamo stagionali, fatte da studenti, da pensionati, da soggetti che le svolgono solo saltuariamente, vengano inquadrate come lavori dipendenti può darsi che sia possibile, allora però c’è da fare un’altra cosa: semplificare le norme, renderle più snelle e agevoli, perché così come sono oggi scoraggiano un’impresa ad assumere manodopera sia fissa che a tempo determinato stagionale».
Riguardo a fenomeni come il caporalato e altre irregolarità del lavoro, lei ha già sostenuto che per fortuna in Toscana sono minime e inferiori che in altre settori…
«Ci sono dei fenomeni che sono classificati come caporalato, che sono a latere dell’attività agricola perché non sono opera di imprese agricole ma di agenzie d’intermediazione e prestazioni di servizi, che possono essere utili anche per il mondo agricolo, che vanno monitorate evitando che ci sia ogni tipo di sfruttamento dei lavoratori. Però parlare di un fenomeno diffuso di caporalato nella nostra regione mi sembra un po’ eccessivo, perché pochi casi non implicano una situazione del genere. Bisogna piuttosto stare attenti a un altro fenomeno altrettanto preoccupante che è quello delle infiltrazioni malavitose nel settore agricolo, che magari per ripulire denaro sporco preferiscono acquisire imprese e attività anche di prestigio. Quest’area va attenzionata, per cui va bene il protocollo della Regione Toscana, a cui abbiamo aderito e siamo nella cabina di regia, perché crediamo che il monitoraggio sia utile, soprattutto per fare un po’ di concorrenza leale, invece che sleale, per far competere alla pari le aziende rispettose delle regole».
Che cosa proponete alla Regione e al presidente Rossi, con cui avete organizzato l’incontro, in questo ambito?
«Naturalmente la materia del lavoro è normativa di livello nazionale e la Regione può fare poco da questo punto di vista se non con i centri per l’impiego e il protocollo sul caporalato prima citato, però è chiaro che anche nella attività di vigilanza e simili bisogna fare in modo che la Regione faccia sentire la sua voce a livello nazionale e magari ci dia una mano a correggere le norme sbagliate e sproporzionate che non favoriscono l’assunzione di manodopera».
Per Luca Brunelli l’agricoltura ha bisogno di europeismo e un budget comunitario all’altezza; sbagliata la contrapposizione fra piccole e grandi aziende agricole, ma bisogna privilegiare chi vive di agricoltura. Filippo Legnaioli: ora più risorse per favorire l’aumento dei livelli produttivi, a cominciare dall’olio. Enrico Rabazzi: questa Pac è complicata, ci vuole una effettiva semplificazione.
«La Toscana rappresenta e deve continuare a rappresentare un esempio di “buone prassi” nel campo delle politiche agricole e di sviluppo delle aree rurali. Ma ce la possiamo fare solo se affrontiamo i problemi dell’agricoltura e delle aree rurali con impegni che vanno oltre la Pac (Politica agricole comune) ed il Psr (Piano sviluppo rurale); solo se nel nostro paese riparte una stagione di investimenti diffusi nei territori, che rivitalizzino le aree rurali sotto il profilo strutturale, infrastrutturale e dei servizi». Questo richiede maggiore stabilità e certezze sia a livello di governo nazionale che europeo. E ci vuole una Pac con un budget che sia garantito da un bilancio comunitario all’altezza, il che significa credere nell’Europa: l’agricoltura richiede europeismo.
A sostenerlo è stato Luca Brunelli, presidente Cia Agricoltori italiani Toscana, in occasione della Conferenza regionale di Cia su agricoltura e sviluppo rurale e sulla Pac post 2020, che si è tenuta questa mattina a Firenze, nella sala Pegaso della Regione Toscana, con la partecipazione del presidente nazionale Cia Dino Scanavino e dell’assessore all’agricoltura Marco Remaschi, che ha fatto gli onori di casa e preso atto delle proposte di Cia. Una assemblea che precede di due giorni la conferenza economica nazionale di Cia, a Bologna dal 29 al 31 marzo, e di otto giorni la “Conferenza regionale dell’agricoltura e dello sviluppo rurale” della Toscana del 5 e 6 aprile prossimi a Lucca. E dalla quale sono emerse quelle che Cia Toscana considera le tre sfide principali che attendono l’agricoltura nella nostra regione: il reddito, la nuova Pac e l’efficienza del sistema territoriale.
A proposito di reddito, «la competitività delle imprese e del territorio – ha sottolineato Filippo Legnaioli, vicepresidente Cia Toscana - è l’unica strada di sopravvivenza per le aree rurali: non basta ribadire il valore del modello di sviluppo rurale di qualità della Toscana; se non si rilancia la competitività, si rischia di essere velocemente surclassati da altre realtà produttive agricole». Per arrivare ad una redditività accettabile – secondo la Cia Toscana – servono aggregazione, un’economia di scala, strategie commerciali di promozione dell’agroalimentare e una migliore valorizzazione economica e sociale dei territori. «Le risorse importanti messe a disposizione dalla parte pubblica (Europa, Regione o quant’altro) – ha poi aggiunto Legnaioli - bisogna che incomincino a spostarsi significativamente sul settore produttivo. Uno dei problemi che abbiamo nel settore a me più vicino, che è quello olivicolo, è la mancanza di prodotto quando abbiamo invece un mercato, soprattutto internazionale, attento alle dop alle igp, grazie all’ottimo lavoro fatto in passato in Toscana, ma non abbiamo prodotto da vendere. Quindi ora come ora bisogna ritornare a piantare olivi, ma anche vigne». Che tipo di sostegni? «Alle disponibilità economiche per l’acquisizione di nuove superfici agricole, agli acquisti di nuove piante e alla realizzazione di nuovi impianti per produrre olio, vino, perché adesso in Toscana si sta producendo troppo poco». Inoltre ha aggiunto, riguardo alle dop e igp, che è necessario «non moltiplicarle eccessivamente perché presuppongono strutture capaci di promuoverle, di produrle in quantitativi sufficienti, facendo quella massa critica necessaria per stare sui mercati nazionali ed esteri».
La nuova Pac potrà essere un fondamentale strumento di sostegno all’impresa ed al presidio del territorio: «L’agricoltura toscana ha da sempre svolto un ruolo da protagonista nel coniugare agricoltura e ambiente – ha aggiunto Enrico Rabazzi, vicepresidente vicario di Cia Toscana -, ed è in prima linea nella sfida dell’innovazione. Ma non è più accettabile una Pac che, di fatto, penalizza fortemente i territori che maggiormente contribuiscono al presidio ambientale ed allo sviluppo sostenibile. Per questo occorre rilanciare la Pac mantenendo l’attuale budget finanziario, anche in considerazione che non è solo una politica di settore ma puntando ad un cambiamento radicale di indirizzo». C’è necessità, secondo la Cia regionale, di una nuova Pac dinamica, in grado di allargare la platea dei beneficiari, superando le rendite di posizione, nel 1° pilastro come nel Psr, e di sostenere la diffusione delle conoscenze e dell’innovazione. Inoltre di una Pac effettivamente semplificata per gli agricoltori («l’ultima è complicatissima» ha osservato Rabazzi), con norme ed adempimenti proporzionati alle diverse attività e rischi, a partire dalla eco-condizionalità. Sul capitolo Pac, ha detto a Floraviva Luca Brunelli, «abbiamo bisogno di una revisione dei suoi concetti. Noi non possiamo accettare ad esempio il principio della storicità, dove la Toscana oggettivamente perisce, perché su un oliveto in Toscana si prendono 400 euro, nel sud Italia si può arrivare a 8 o 12 mila euro. Questo perché la storicità dei titoli veniva fatta sulla produzione degli anni precedenti, che in Toscana era oggettivata da registri reali, mentre in altre regioni no. Inoltre il concetto della sostenibilità va modificato in funzione del binomio tra impatto ambientale e capacità di reddito nelle aree rurali. Poi abbiamo bisogno di dare una risposta certa a chi di agricoltura ci vive, a chi in agricoltura mette il suo sudore, il suo futuro. Per cui dobbiamo dare una premialità alle vere figure agricole». Infine Brunelli ha criticato recisamente la distinzione fra piccole e grandi aziende agricole, che non riflette necessariamente una migliore redditività e competitività delle seconde.
La terza e ultima sfida da vincere è quella di un sistema-territorio che sia efficiente e competitivo: l’efficienza, la competitività e la qualità della vita del territorio, infatti, sono punti strategici per la sua valorizzazione, identità ed affermazione. Un nuovo dinamismo dei territori e delle istituzioni locali, a partire dalla loro interlocuzione positiva con il sistema delle imprese; ma anche un sistema amministrativo efficiente».
La Regione Toscana, afferma il documento di Cia, ha messo in campo un’azione legislativa importante, attraverso percorsi partecipativi e di condivisione non comuni nel contesto politico generale: dalla disciplina urbanistica al tanto discusso piano paesaggistico; dalla Legge obiettivo sul riequilibrio faunistico alle norme sulla multifunzionalità (agriturismo, agricoltura sociale, bonifiche). «Ma fare impresa agricola – conclude Cia Toscana - resta un percorso ad ostacoli: bene ad esempio la nuova disciplina urbanistica, ma si rischia la disapplicazione da parte di molti Comuni; sull’ambiente, c’è un labirinto di vincoli, adempimenti, scadenze di pagamento di numerosi tributi da tenere sotto controllo, al quale non si accompagna una vera ed efficace politica ambientale attiva, in grado di valorizzare e premiare i fattori ad esternalità positiva dell’agricoltura. Resta poi l’emergenza nella gestione faunistica: nonostante i primi risultati siano incoraggianti siamo ancora in emergenza. Servono infine sostegni al welfare nelle aree rurali».
Il coordinatore di Agrinsieme Mercuri (Confcooperative): la Pac deve andare ad aziende strutturate e capaci di diventare competitive e bisogna spostare parte delle risorse sui piani nazionali. Giovanni Luppi (Legacoop): il fatturato della cooperazione agroalimentare vale 37 miliardi, il 31% dell’intero agroalimentare italiano, ma può salire perché il prodotto agricolo che transita nella cooperazione è sotto la media europea. Cinzia Pagni (Cia): più aggregazioni anche fra le cooperative di produzione agricola, come è stato per quelle della distribuzione. L'assessore Remaschi: necessario un cambio di mentalità, ma dai Pif toscani un segnale positivo.
Le agevolazioni fiscali arrivate all’agricoltura in questa legislatura sono un importante aiuto per superare la crisi, ma poi «le nostre aziende non potranno fare reddito se non acquisendo più quote di mercato». E la Politica agricola comune (Pac) va riorientata: «le risorse devono andare alle aziende agricole che possono diventare competitive», quelle più grandi e strutturate, «la chiusura di tante aziende agricole è dovuta a una Pac che non ha dato finora gli aiuti giusti»; inoltre, sempre nella logica di aiutare chi sa mettere a frutto gli aiuti, bisogna spostare una parte delle risorse su piani di livello nazionale.
Questo, in sintesi, il messaggio di Giorgio Mercuri, coordinatore nazionale di Agrinsieme e presidente di Fedagri – Confcooperative nonché dell’Alleanza delle cooperative agroalimentari, alla tavola rotonda “Dalla politica della cooperazione alla politica per la cooperazione” che si è svolta ieri a Firenze in chiusura delle due giornate di studi organizzate da Accademia dei Georgofili e Agrinsieme sul tema “Cresce la cooperazione agroalimentare, cresce l’agricoltura”. Alla tavola rotonda, moderata dal giornalista Marzio Fatucchi, sono intervenuti anche l’assessore all’agricoltura della Toscana Marco Remaschi, la vicepresidente di Cia – agricoltori italiani Cinzia Pagni, il presidente di Legacoop agroalimentare e copresidente dell’Alleanza delle cooperative agroalimentari Giovanni Luppi, il presidente di Copagri Franco Verrascina e il presidente della commissione Agricoltura Luca Sani (vedi articolo di ieri).
«Noi siamo convinti – ha aggiunto Giorgio Mercuri - che il futuro della Pac può essere in parte orientato sugli aiuti diretti: probabilmente quelli relativi alla parte ambientale. E in parte invece deve essere fortemente orientato sugli investimenti, quindi sul secondo pilastro, perché così mette in condizione le aziende di poter investire e potersi innovare». La Pac, per Mercuri, non deve abbandonare i contributi a fondo perduto, come vorrebbero alcuni in Europa, e deve indirizzarsi «a favore delle grandi aziende, perché questo significa stimolare le aziende a mettersi insieme per poter portare a casa risorse importanti». La richiesta del mondo della cooperazione di girare più risorse dal livello regionale a quello nazionale, ha chiarito Mercuri, non significa però spostare tutto sui piani nazionali, «perché abbiamo situazioni diverse da una parte all’altra del Paese». Mercuri ha poi invitato i produttori della filiera agroalimentare a rivolgersi ad Agrinsieme per far valere le proprie istanze, perché è più efficace ragionare in termini di agroalimentare che solo di agricoltura, pensando al completamento della filiera, «sia attraverso le cooperative che confrontandosi con l’agroindustria». E a questo proposito ha affermato «la necessità che i ministeri dello sviluppo economico e dell’agricoltura non si incontrino solo occasionalmente».
Portando i saluti della Regione Toscana, l’assessore all’agricoltura Marco Remaschi ha sostenuto che per «aumentare il reddito e garantire l’accesso ai mercati alle nostre produzioni» agricole «c’è bisogno di innovazioni di prodotto e di processo». E ciò implica fra l’altro favorire tutte le forme di aggregazione in agricoltura, dall’integrazione orizzontale fra produttori a quella verticale lungo le filiere produzione-mercato, per superare il limite del sottodimensionamento aziendale. «La via è quasi scontata – ha detto Remaschi -. Ci siamo arrivati? No, abbiamo bisogno di lavorare ancora a un cambio di cultura dei nostri operatori agricoli». Ma i segnali positivi ci sono stati, secondo l’assessore, come testimoniato dalle risposte ai bandi regionali su pif (progetti integrati di filiera) in cui si è registrata «una maggiore capacità di mettersi insieme».
Cinzia Pagni, vicepresidente di Cia, ha affermato che nonostante un calo del reddito dell’8%, contro un -2% medio in Europa, dall’inizio della crisi, gli agricoltori «si sono dimostrati resilienti di fronte alla crisi». Resta però il punto debole della «scarsa propensione ad aggregarsi, quando invece, in una situazione di crisi in cui i mercati esteri sono fondamentali, ci sarebbe bisogno di più aggregazione e cooperazione». Per Cinzia Pagni «l’aggregazione del modello cooperativo può garantire un futuro migliore all’agricoltura» e «la cooperazione può dare più risposte agli agricoltori, purché ci siano aggregazioni anche al livello della produzione, delle cooperative di produzione, come è successo nella distribuzione». Sui piani di sviluppo rurale e i pif, la vicepresidente di Cia ha chiesto un’ulteriore sburocratizzazione. Infine ha auspicato una strategia di Paese sull’export, perché anche se qualcosa è stato fatto, non è sufficiente, e i grandi gruppi italiani non possono farcela da soli a presidiare il nostro sistema agroalimentare.
Il presidente di Legacoop agroalimentare, nonché copresidente dell’Alleanza delle cooperative agroalimentari, Giovanni Luppiha ricordato alcuni numeri. «Nel settore cooperativo agroalimentare – ha detto – sviluppiamo 37 miliardi di fatturato, su un fatturato totale dell’agroalimentare italiano di 120 miliardi». Si tratta di una quota del 31%, ma che può essere incrementata alla luce di altri dati. Basti pensare che mentre «in Europa la percentuale di prodotto agricolo che passa per la cooperazione supera il 60%», in Italia non si arriva al 40%. Luppi si è soffermato poi su un altro confronto di dati: il numero delle aziende agricole in Italia nel censimento del 1948, pari a 17 milioni, e quello del 2010, pari a 1 milione e 600 mila imprese agricole, e «probabilmente – ha chiosato - le imprese agricole vere oggi saranno non più di 600/700 mila». Questo significa, ha argomentato, che «c’è un apparato di riferimento, composto da cooperazione, organizzazioni professionali e altri strumenti che mi sembra francamente sovradimensionato rispetto al numero di aziende» e che dovrà in parte cambiare, anche per altre ragioni. «Quando eravamo nel Dopoguerra – ha detto Luppi a Floraviva dopo la fine dell’incontro - l’impresa agricola aveva bisogno sostanzialmente che la cooperativa provvedesse a tutti i suoi bisogni: il ritiro del prodotto, la commercializzazione del prodotto. Oggi siamo di fronte ad imprenditori agricoli molto più dimensionati che posso fare un pezzo del mestiere a casa loro. Le faccio un esempio: nel settore della frutta si possono andare a raccogliere, che so, le mele a casa del produttore, portarle in cooperativa, lavorarle e poi venderle, ma ci possono essere altri modelli in cui il produttore agricolo la confezione delle mele se la fa a casa e dà alla cooperativa da vendere le sue confezioni; vuol dire che si è trattenuto un pezzo di plusvalore a casa propria». Infine, questa è la sua visione di come nella filiera agroalimentare si possa arrivare a dare più reddito agli agricoltori: «più organizzazione in tutti i pezzi della filiera: intanto organizzazione a casa delle imprese agricole, che in Italia rimangono sottodimensionate e quindi gravate di costi anche perché piccole; a valle, la cooperazione o l’impresa di trasformazione del prodotto agricolo deve raggiungere modelli di efficienza più alti degli attuali, questo è inevitabile. Imprese moderne dimensionate possono affrontare con più capacità i temi che attengono all’innovazione di prodotto, oggi fondamentale per stare sul mercato, e il tema di raggiungere mercati fuori dall’Italia. Noi abbiamo in Italia produzioni agricole, le faccio il caso del vino, dell’ortofrutta e dell’olio d’oliva, che sono eccedentari rispetto ai consumi interni. Se non avessimo le condizioni per esportare queste produzioni sui prezzi sarebbe un disastro. Bisogna avere questa capacità di portare fuori all’estero le nostre produzioni eccedentarie».