Servizi
- Dettagli
- Scritto da Andrea Vitali
Prevalgono i segni meno nei principali mercati dei fiori italiani. Al Mefit di Pescia giro d’affari generale del periodo pre-Ognissanti calato del 3% rispetto al 2021, con i crisantemi che valgono il 40% del totale. Nel mercato di Sanremo continuano a diminuire i crisantemi (pari al 30% del totale del periodo), ma il giro d’affari generale cresce del +10/15% grazie all’ascesa delle fronde verdi. Al mercato di Terlizzi, il più ricco di fiori made in Italy e dove il crisantemo vale il 70% del giro d’affari in questo periodo, ulteriore accelerazione del trend negativo iniziato 2 anni fa, con molti fiori invenduti in platea. Anche a Ercolano «vendite al di sotto dell’anno scorso e degli altri anni». [Foto del mercato di Terlizzi il 29 ottobre fornita dal direttore Caputo]
Lorenzo Sandiford
- Dettagli
- Scritto da Andrea Vitali
All’incontro “Sanremo è floricoltura” uno spaccato del comparto florovivaistico ligure d’interesse nazionale. Gianfranco Croese: «i prezzi delle fronde dal 2019 sono cresciuti dal +15% al +60/70% a seconda delle varietà». Anna Asseretto sul progetto sull’Echeveria da fiore reciso e sul mercato delle piante in vaso. Stefano Alì su come ha innovato la coltivazione di ranuncolo. Andrea Mansuino sull’importanza dell’ibridazione. Paolo di Massa sui «rumors» di riduzioni produttive olandesi del 30% per il caro-energia che potrebbero aprire spazi ai liguri e sul campo sperimentale di lavanda. Il direttore del Mercato dei fiori di Sanremo Barbagelata: nostro fatturato salito del 40% dalla pandemia; ma il presidente di Amaie Gorlero: bolletta elettrica da 35 mila euro di luglio 2021 a 130 mila di luglio 2022. Riccardo Jannone (IRF): avremo laboratorio sulla Xylella e studiamo l’impatto dei cambiamenti climatici sulle piante nei prossimi anni. Marco Savona sulla nuova piattaforma biotecnologica del CREA OF di Sanremo e sulle vie della sostenibilità in floricoltura. Il presidente del Distretto florovivaistico della Liguria De Michelis sull’attuale impossibilità di fare totalmente a meno della chimica.
«La floricoltura non è assolutamente finita. Me lo dicono da quando sono bambino, ma io vedo ancora un lungo percorso: per renderlo più solido dobbiamo fare qualcosa di diverso da quanto abbiamo fatto fino a ieri, con scelte coraggiose».
Con questa dichiarazione finale nel segno del bicchiere mezzo pieno del sindaco di Sanremo Alberto Biancheri, noto imprenditore del settore florovivaistico, si è concluso l’incontro “Sanremo è floricoltura – workshop sul presente e il futuro del fiore alla luce delle nuove sfide economiche ed ambientali” tenutosi lunedì scorso al Museo Civico di Sanremo con diretta streaming. Un appuntamento articolato in una prima parte di testimonianze di aziende del settore floricolo ligure e in particolare della provincia di Imperia, in un focus sul mercato dei fiori di Sanremo, in una finestra sui principali soggetti deputati alla ricerca e alla sperimentazione (l’IRF – Istituto Regionale per la Floricoltura e il CREA Orticoltura e Florovivaismo di Sanremo) e in una tavola rotonda finale. Ecco alcuni dei temi emersi durante l’incontro d’interesse non strettamente ligure.
Cinque testimonianze aziendali dalla provincia di Imperia
Ad aprire le testimonianze delle imprese florovivaistiche di Sanremo è stato Gianfranco Croese di Florcoop Sanremo, che ha oggi più di 1500 soci e 130 dipendenti, 18 ettari coltivati direttamente, 15 mila mq dedicati alla logistica. Una realtà economica che nel 2021 ha raggiunto un fatturato di 28,3 milioni di euro così ripartito: 18,3 mln per fiori e fronde, 4,9 mln per le piante in vaso, 4,3 mln per mezzi tecnici per l’agricoltura e il resto per agroalimentare e altro.
Croese, dopo aver sinteticamente ricordato come nacque la cooperativa e i suoi dati principali, ha parlato della “riscoperta delle fronde” scattando una fotografia dell’evoluzione di questo comparto dal 2019 a oggi (30 di settembre 2022), con riferimento in particolare alle quantità e i prezzi delle varietà principali per la sua cooperativa. «Buona parte del nostro fatturato – ha esordito – è dato proprio dalle fronde». I prodotti principali sono Eucalyptus cinerea, Eucalyptus parvifolia, Eucalyptus stuartiana, Ginestra, Ruscus, Pittosforo e la Mimosa. «Questi prodotti – ha reso noto Croese – dal 2019 a oggi hanno avuto un incremento di prezzo dal +15% al +60/70% e per la quantità abbiamo avuto una notevole richiesta ma l’andamento è stato meno lineare per la difficoltà del reperimento del prodotto, perché la richiesta è sempre molto forte, ma in base alla reperibilità non sempre si riesce ad assolvere alla domanda. E i prezzi sono la prova dell’alta domanda».
Croese si è poi soffermato sulla questione dell’età media alta dei produttori e di come sono intervenuti per favorire il ricambio generazionale dei soci attirando nuove leve fra i giovani in cerca di lavoro. Grazie anche a misure ad hoc del Psr dal 2018 a oggi c’è stata una lieve tendenza al miglioramento con l’insediamento di diversi giovani. Croese ha poi descritto le modalità di istruzione (tramite coppie tecnico - floricoltore esperto) dei nuovi soci per favorire una produzione il più possibile di qualità e uniforme all’interno della cooperativa. Infine, ha anticipato che sul fronte dello sviluppo, c’è un progetto riguardante la coltivazione di piante in vaso per il fiore reciso di Viburno opulus (palla di neve) che prevede la programmazione di protocolli di condizionamento per mezzo di stress caldo/freddo al fine di anticipare la produzione. «Stiamo cercando di anticipare la raccolta – ha spiegato Croese – in periodi di alta richiesta del mercato», cioè di raggiungere il mercato in momenti in cui la produzione attraverso meccanismi normali non ce la farebbe.La seconda testimonianza, su “Le succulente in vaso e da reciso”, è stata di Anna Asseretto di AG Sanremo, vivaio specializzato in cactus e succulente, con oltre 200 varietà di piante grasse e un intero settore dedicato alle piante da collezione e i cactus rari. Dopo aver tracciato la storia aziendale e aver ricordato di rappresentare la 4^ generazione dell’impresa familiare ma che è già presente in azienda anche la 5^, ha raccontato che 2 anni fa è stata coinvolta dall’Istituto Regionale per la Floricoltura (IRF) di Sanremo per un progetto sull’Echeveria da fiore reciso, sia per bouquet che per altre composizioni floreali. Il Distretto florovivaistico della Liguria ha seguito la parte commerciale, ha spiegato Anna Asseretto, mentre lei la produzione e l’IRF una ricerca sulla durata del prodotto dopo la raccolta. «L’idea era che i coltivatori seguissero anche questo prodotto che non comporta la pressione di altri prodotti floricoli nel momento della raccolta – ha aggiunto -. Siamo oltre un centinaio di aziende sul territorio della provincia. C’è molta collaborazione fra noi e abbiamo potuto ampliare la produzione sul territorio. Le aziende più grandi esportano in Europa e al di fuori dell’Europa, ma senza l’aiuto di alcuni floricoltori specializzati in alcune varietà particolari non potrebbero farlo. Abbiamo una collaborazione con programmazione del prodotto sul territorio e questo è un vantaggio importantissimo».
Riguardo all’andamento di mercato, Anna Asseretto ha detto fra l’altro che «quest’anno per il settore delle piante in vaso c’è stato un momento difficile perché è venuta a mancare l’esportazione dell’Olanda, che è nostro cliente importatore, nei paesi dell’Est, a seguito del conflitto. E anche in altre zone hanno ridotto le coltivazioni perché è rimasto molto prodotto invenduto. Questo a primavera, ma poi è arrivato il caldo e il ridotto consumo di acqua per cui le nostre piante sono state ricercate perché hanno meno bisogno di acqua».
Poi è stata la volta del floricoltore Stefano Alì, che ha parlato della sua specializzazione, “Il re dei fiori di Sanremo: il ranuncolo”. Alì ha ricordato come ha trasformato la sua azienda familiare da old style, con 1000 piante a terra da cui se ne raccoglievano 500, in un vivaio con un «sistema di coltivazione tutto in fuori suolo, distaccato da terra, in pochissimo substrato, con limitazione di acqua e pesticidi». Con questi metodi, ha detto, oggi di ranuncoli ne producono molti di più e di maggiore qualità: «conferisco tutta la merce al mercato dei fiori di Sanremo, così mi concentro solo sulla coltivazione e sul portare il prodotto migliore possibile al mercato». Con le nuove tecniche di coltivazione, ha aggiunto Alì, «le irrigazioni si gestiscono col telefono e abbiamo diverse avversità del ranuncolo che possono essere combattute anche con insetti antagonisti o funghi, senza chimica». Insomma è coltivare ranuncoli così è diventato «un lavoro appassionante» e «non solo sacrificio» come un tempo.
È seguita la relazione di Andrea Mansuino, dell’omonima azienda, sul tema “Ibridazione e innovazione varietale: l’importanza della nostra floricoltura”, in cui ha ricordato che la floricoltura italiana e ligure sono apprezzate all’estero, tant’è che ad esempio è invitato a parlare della ibridazione italiana a un appuntamento internazionale a Bogotà la prossima settimana. «Il miglioramento genetico non arricchisce solo gli ibridatori ma crea economia e sviluppo per tutta la filiera – ha concluso Mansuino dopo aver illustrato un albero genealogico degli ibridatori italiani di garofano -, perché per i produttori avere prodotti innovativi e protetti da brevetti ecc. è fondamentale».
L’ultima testimonianza imprenditoriale è stata di Paolo di Massa, uno dei titolari dell’azienda Diemme Fiori specializzata nell’import-export di piante ornamentali, fiori freschi verdi e freschi recisi e fiori secchi, nonché presidente di Ancef (Associazione nazionale commercianti esportatori di fiori). Il titolo del suo intervento era “Nuovi prodotti, logistica e sostenibilità”. «L’azienda è divisa in due settori – ha detto Paolo di Massa -: un’azienda tradizionale di export e una per la grande distribuzione. La parte export vende i prodotti di Sanremo, che sono ranuncoli, anemoni, fronde, papaveri e molto altro e hanno sempre una presa internazionale incredibile. Si prospetta un inverno positivo, se rispecchia l’estate, ancor più perché ci sono dei rumors secondo i quali in Olanda non verranno piantati i quantitativi di una volta, causa spese esagerate legate ai costi dell’energia (si ipotizza un 30% in meno, se non una riduzione ancora maggiore). Questo potrebbe andare a nostro vantaggio perché producendo in un clima più caldo siamo favoriti. Speriamo che ci sia questa ricaduta positiva in Italia». «Negli ultimi 3, 4 anni – ha aggiunto - abbiamo aggiunto il fiore secco che ci ha dato la possibilità di aumentare i fatturati, di rendere la stagione un po’ più lunga. Fortunatamente i floral designer ritengono interessanti anche le composizioni miste con fiori secchi e fiori freschi». Riguardo alla grande distribuzione, ha detto, «ci siamo concentrati su commercializzare 3 prodotti totalmente naturali: un profumatore alla lavanda, un profumatore alla menta e i mazzi di lavanda secca». Sono bio e in un paio di anni anche il packaging sarà riciclabile nel compostabile. Dopo aver richiamato tutte le azioni intraprese sul fronte della sostenibilità, Paolo di Massa ha parlato anche del lato produzione della sua azienda e della decisione di fare un campo sperimentale di lavanda con l’obiettivo di capire in 3 anni esattamente la resa. Divulgheranno i risultati e, se sarà interessante, realizzeranno un profumatore alla lavanda a km 0. E la lavanda, ha osservato, richiede poca acqua per la lavanda e consente la riqualifica di alcuni terreni in discesa dove potrebbe essere piantata.
Il punto sul mercato dei fiori di Sanremo
Un importante contributo alla filiera del fiore ligure, accanto a quello dei floricoltori e dei commercianti, arriva dal mercato dei fiori di Sanremo. Sullo stato di salute di questo mercato hanno parlato il direttore Franco Barbagelata e Andrea Gorlero, presidente di AMAIE Energia. «Questa mattina del 17 ottobre comincia il periodo dei santi e dei morti e sul plateatico c’erano 2 persone, uno che esponeva la merce e uno che consegnava – ha esordito il direttore Franco Barbagelata -. Quindi il lavoro fatto negli ultimi 20 anni per il deposito fiori è stato fondamentale, perché senza quello ci sarebbe poca floricoltura sul mercato. In questi anni siamo riusciti a creare una rete di servizi, puntando alla qualità del prodotto, alla fatturazione diretta e alla garanzia dei pagamenti, che ci ha permesso di essere competitivi e di riuscire a lavorare con circa 200 articoli sul deposito. E avere un’asta con anemoni e ranuncoli che ci consente di guardare al futuro in modo positivo». «I dati – ha proseguito Barbagelata – sono incoraggianti: dagli anni della pandemia a oggi abbiamo aumentato il nostro fatturato del 40% arrivando a 10 milioni di euro di fatturato. Abbiamo passato un’estate positiva, con aumento delle vendite e abbiamo ora un autunno che si sta prospettando interessante, perché c’è molta richiesta dal mondo del commercio, c’è una buona produzione, c’è un andamento quindi molto positivo, anche se resta l’incognita dei costi, che sono aumentati molto, soprattutto per le aziende piccole. Aumenti che calcoliamo intorno al 30%. La bolletta energetica sta diventando un incubo, come sappiamo anche noi del mercato con i costi dei frigoriferi». In ogni caso, ribadisce, «siamo riusciti a uniformare il mercato: parlo soprattutto dei pagamenti e della qualità dei prodotti», visto che «noi paghiamo a 30 giorni e ogni soggetto che voglia entrare in questo settore del fiore reciso deve stare ai nostri termini se vuole accaparrarsi una quota di mercato». Sul futuro del mercato dei fiori di Sanremo si è espresso invece l’Avv. Andrea Gorlero, che si è soffermato tra l’altro sulle problematiche della struttura mercatale, un edificio di 35 anni, e su quelle dei costi energetici legati ai frigoriferi. «A luglio del 2021 – ha detto – abbiamo pagato 35 mila euro più Iva, quest’anno siamo a 130 mila euro al mese e a settembre siamo scesi a 95 mila. A questi livelli di costi non si regge. Tanto è vero che nel piano che stiamo presentando ipotizziamo un intervento fotovoltaico di 1300 kw, altrimenti non ci si fa». E per il futuro saranno necessari investimenti cospicui sulla struttura che necessiteranno del supporto pubblico e quindi del PNRR: «dove noi contiamo di partecipare a 3 bandi – ha precisato Gorlero –, oltre a quello del sisma bonus».
Strutture per la ricerca in floricoltura
Riccardo Jannone, direttore reggente dell’Istituto Regionale per la Floricoltura (IRF), che promuove, realizza e coordina le attività di ricerca e sperimentazione nel comparto floricolo ligure, ha innanzi tutto illustrato la storia e le funzioni dell’IRF, fra le quali in primo piano l’attività diagnostica e di micropropagazione. A questo proposito, ha annunciato che è stato «attivato il percorso per diventare laboratorio certificato sulla Xylella».
Sul fronte del PNRR, l’IRF ha presentato domande di finanziamenti per il recupero di varietà storiche di margherite da taglio e di lavanda. Inoltre sarà presentato nei prossimi giorni un progetto sulla sostenibilità, cioè per un’agricoltura di precisione o 4.0 in cui tramite il controllo di software ad hoc si riducono gli input chimici delle coltivazioni e anche la quantità di acqua utilizzata.
Oltre al problema ricorrente della diffusione di organismi patogeni, per contrastare la quale sono cruciali diagnostica e monitoraggio, ha fatto sapere Jannone, si lavorerà alla genetica pensando agli scenari del clima nei prossimi 20 anni: «collaboriamo con un istituto a Savona che fa scenari climatici e lavoriamo con loro per capire su che tipi di specie dovremo puntare nei prossimi anni – ha detto Jannone -. Abbiamo già verificato ad esempio che l’aumento delle temperature ha inciso sull’Eucaliptus cinerea che si è essiccata in qualche caso, cioè le piante non avevano malattia ma sono morte di caldo».
Infine, il dott. Marco Savona, ricercatore del CREA Orticoltura e Florovivaismo di Sanremo intervenuto in sostituzione di Barbara Ruffoni su “La sostenibilità in floricoltura: il ruolo della ricerca”, ha innanzi tutto illustrato come è strutturato il Centro di Ricerca Orticoltura e Florovivaismo, che ha a livello nazionale 123 dipendenti di cui 31% ricercatori tecnologi e 29% personale tecnico, e quali sono le specializzazioni delle sue 4 sedi, con quello di Sanremo dedicato principalmente allo sviluppo di nuovi materiali genetici attraverso approcci convenzionali e innovativi (biotecnologie, tecniche di evoluzione assistita) per il miglioramento di qualità e produttività, nonché della resistenza/tolleranza agli stress biotici e abiotici; al recupero, mantenimento e valorizzazione di specie e varietà autoctone; all’innovazione di prodotto mediante selezione dei genotipi più adatti a filiere innovative. Nel maggio di quest’anno, ha ricordato Savona, sono stati inaugurati i nuovi laboratori potenziati di biologia molecolare e biochimica e per la coltura di tessuti in vitro del CREA OF di Sanremo: una «piattaforma biotecnologica per implementare la ricerca nel settore della floricoltura e delle aromatiche» (vedi) che è stata illustrata in dettaglio.
Come farà la floricoltura e più in generale l’agricoltura a vincere la sfida della sostenibilità? Le strade sono sostanzialmente due, ha spiegato Savona: a) una floricoltura molto specializzata e tecnologica oppure b) una floricoltura molto “naturale”, cioè biologica. Questo significherà diffondere «tecniche di coltivazione aggiornate e/o naturali», produrre «fiori multifunzionali», «nuove filiere da gestire in modo sostenibile», «recupero degli scarti«» ed «economia circolare». E Savona si è soffermato con un’apposita slide sulle «innovazioni che permettono di coltivare ovunque»: serre con luci LED, idroponica, sensori a controllo da remoto.
L’incontro si è chiuso con una tavola rotonda a cui sono intervenuti, fra gli altri, il sindaco di Sanremo Alberto Biancheri, l’assessore all’agricoltura della Regione Liguria Alessandro Piana, il presidente dell’IRF Gianluca Boeri e il presidente del Distretto florovivaistico della Liguria Luca De Michelis. Quest’ultimo, con riferimento alle politiche europee del Green Deal, ha detto che gli agricoltori e i floricoltori avranno necessità di sostegno, perché pur essendo abbastanza avanti sulla via della sostenibilità hanno ancora bisogno di un po’ di chimica. Farne completamente a meno sarebbe «come andare in guerra con la racchetta da tennis».
Lorenzo Sandiford
- Dettagli
- Scritto da Andrea Vitali
Al convegno dei Georgofili del 29 settembre su “Olivicoltura oggi e domani: tradizionale, intensiva, superintensiva” dati sull’olivicoltura italiana e spunti dalla ricerca e dai professionisti su che cosa fare per aumentare la produzione di olio di oliva made in Italy. L'intervento di inquadramento dello stato dell'arte dell'olivicoltura italiana del prof. Riccardo Gucci, il prof. Franco Famiani su alcune ricerche su come accorciare i tempi per arrivare alla piena produzione degli impianti intensivi, le sperimentazioni di impianti ad alta densità in Sicilia del prof. Tiziano Caruso con gli ottimi risultati della cultivar Calatina, l'appello di Aleandro Ottanelli a insistere nella ricerca di cultivar italiane adatte alla raccolta meccanica in continuo, l'invito di Alessandro Tincani a non trascurare l'importanza della valorizzazione degli impianti esistenti e la visione del rilancio dell'olivicoltura nazionale di Vincenzo Nisio a partire anche da alcune esperienze in Campania.
L’uso di piante di olivo di 2 anni per l’impianto e la combinazione di diversi trattamenti (irrigazione, fertirrigazione, biostimolanti) riduce significativamente il tempo per raggiungere la piena produzione di un uliveto intensivo: da 7/10 anni a 5/7 anni. Una risposta significativa a una delle principali criticità per l’olivicoltore che intende puntare sull’olivicoltura intensiva: il tempo necessario perché l’investimento dia i suoi frutti.È uno dei risultati che sono stati presentati il 29 settembre a Firenze al convegno organizzato dall’Accademia dei Georgofili sul tema “Olivicoltura oggi e domani: tradizionale, intensiva, superintensiva. Opportunità e criticità a confronto nei vari contesti” (vedi). Risultato non ancora definitivo che è stato illustrato dal prof. Franco Famiani, docente di Arboricoltura generale e coltivazioni arboree all’Università di Perugia, nella sua relazione intitolata “Scelte e tecniche per massimizzare l’efficienza dei nuovi oliveti”. Un intervento nel corso del quale, trattando il capitolo del rinnovamento/ampliamento degli oliveti - che per Famiani vede in lizza tre modelli prevalenti: intensivo con 280-400 piante a ettaro, superintensivo più di 1500 piante/ha, intensivo ad alta densità 800/1200 piante/ha -, ha affrontato anche la principale problematica dell’olivicoltura superintensiva o ad alta densità: il fatto che per adesso le cultivar di olivo più adatte siano straniere, vale a dire le spagnole Arbequina e Arbosana e la greca Koroneiki. Ebbene dalle sperimentazioni in Italia illustrate da Famiani è emerso che le cultivar italiane che paiono migliori, secondo vari parametri, per l’olivicoltura superintensiva e intensiva ad alta densità sono il Leccio del Corno, il Maurino, il Piantone di Mogliano e la FS17, le quali comunque «sembrano soprattutto adatte a impianti ad alta densità». La relazione di Famiani si è conclusa con l’affermazione della prospettiva futura di un’olivicoltura italiana «definita al plurale», con diversi modelli olivicoli che devono coesistere tra loro, che darebbe «più flessibilità» al comparto. E con l’osservazione che attraverso pratiche agronomiche ad hoc, basate su ripensamento della potatura e sulla meccanizzazione, si possono ottenere recuperi di produzione altissimi anche negli oliveti tradizionali.
Ma sono stati tantissimi gli spunti venuti fuori durante il convegno, che è stato introdotto dal saluto in remoto del presidente del Collegio nazionale dei Periti agrari Mario Braga e moderato dalla consigliera dell’Accademia dei Georgofili Federica Rossi (Istituto per la Bioeconomia del CNR) e dal delegato del Collegio dei periti ai rapporti coi Georgofili, Lorenzo Venturini.
A cominciare dalla relazione introduttiva del prof. Riccardo Gucci, georgofilo, ordinario di Coltivazioni arboree dell’Università di Pisa e presidente dell’Accademia Nazionale dell’Olivo e dell’Olio, che ha inquadrato le problematiche dell’incontro. Gucci ha fra l'altro ricordato che la produzione di olio a livello mondiale negli ultimi 30 anni è raddoppiata perché altrettanto ha fatto il consumo di olio. Solo che l’Italia non ha saputo sfruttare questo trend di lungo termine, visto che negli ultimi anni è in una tendenza lievemente calante e difficilmente riesce a superare il livello di 350 mila tonnellate di olio di oliva annuali. Come fare per cambiare rotta e mettere meglio a frutto il quasi milione di ettari di oliveti che abbiamo? «Una delle cose da fare – ha detto Gucci – è aumentare la densità degli impianti». Bisogna passare da situazioni di 50/100 piante a ettaro a densità molto maggiori, anche se, come ha specificato, «densità di impianto non è sinonimo di intensificazione colturale», che dipende anche dalla forma di allevamento, dalla meccanizzazione e l’irrigazione ecc. Per Gucci negli oliveti tradizionali possiamo migliorare la situazione tramite rinfittimenti, irrigazione e sistemazioni agrarie, ma non è possibile rilanciare la produzione nazionale solo agendo sugli oliveti tradizionali: è necessario anche «pensare ad altri modelli e passare alla meccanizzazione della raccolta». Tra l’oliveto tradizionale e il superintensivo ci sono tante possibilità intermedie da valutare a seconda dei contesti che Gucci ha passato in rassegna: l’oliveto intensivo, che ha una densità tra 280 e 550 alberi ad ettaro, nessuna limitazione varietale, raccolta meccanica con vibro-scuotitori del tronco e buona produttività; l’oliveto intensivo ad alta densità, con 550/1000 alberi/ha, forme in parete, elevato investimento iniziale, raccolta meccanica laterale e alta produttività; l’oliveto superintensivo, con densità di oltre 1000 alberi a ettaro, limitazioni varietali e di pendenza del terreno, raccolta meccanica in continuo con scavallatrici, investimento elevato di durata inferiore, forme di allevamento a parete o siepe, elevata produttività. Gucci si è anche soffermato anche su altre esigenze dell’olivicoltura di oggi, oltre a quella della produttività, fra cui ad esempio la riduzione dell’impatto ambientale e la resistenza ai cambiamenti climatici e alle nuove emergenze fitosanitarie. Dopo aver riassunto le criticità e i punti di forza della nostra olivicoltura e aver evidenziato l’importanza, spesso trascurata, della qualità del suolo anche in questo comparto, ha concluso sostenendo che «bisogna produrre di più con meno» o «meglio con più conoscenza e consapevolezza» e che «nel rinnovo dell’olivicoltura è prioritario il mantenimento della identità e tipicità delle nostre produzioni, pur garantendo alle aziende di effettuare in piena libertà le proprie scelte» (vedi anche nostra intervista).
Aleandro Ottanelli, perito che opera presso l’Università di Firenze, nella sua relazione “Modelli colturali e adattabilità delle cultivar alla raccolta meccanica in continuo, esperienze in Toscana, ha esordito ricordando che la raccolta delle olive incide per il 52% nei costi di produzione dell’olivicoltura tradizionale delle colline fiorentine. Non solo, la raccolta incide anche nella qualità del prodotto finale, soprattutto con riferimento alla tempistica. Per questo la raccolta meccanica in continuo è da sempre una delle massime aspirazioni e sono stati fatti molti tentativi negli ultimi decenni anche in Toscana. Sono state fatte verifiche sull’adattabilità delle cultivar toscane al sistema di raccolta in continuo, ad esempio a Siena. Le cultivar toscane che hanno dato risultati migliori, in un oliveto da 1.094 piante a ettaro, sono state Maurino con quasi 70 quintali di olive a ettaro e Leccio del Corno con circa 60 quintali, dati inferiori agli oltre 80 quintali a ettaro di un impianto di Arbequina da 1600 piante/ha. Ulteriori sviluppi sono in corso di analisi in relazione a nuove macchine raccoglitrici e «probabilmente delle risposte arriveranno dal miglioramento genetico» delle cultivar, ha detto Ottanelli, che ha chiuso con un appello a insistere nella ricerca di nuove varietà di olivi italiane adatte alla raccolta meccanica in continuo.
“Sistemi di impianto, cultivar e macchine: interazione imprescindibile per il rilancio dell’olivicoltura” era il titolo dell’intervento del prof. Tiziano Caruso, ordinario di Coltivazioni arboree e docente di Olivicoltura presso l’Università di Palermo. Dopo aver sottolineato che, nonostante la sintonia fra gli studiosi di olivicoltura per molti aspetti, non mancano alcune piccole differenze legate alle caratteristiche dei territori e delle rispettive olivicolture, ha esordito dicendo che per sviluppare nuovi modelli d’impianto bisogna partire da un’analisi dei destinatari, cioè degli olivicoltori italiani. In Italia, ha ricordato Caruso, attualmente prevale la piccola proprietà (da 1 a 3 ettari) e c’è un’ampia base varietale («noi abbiamo certificato 199 varietà»), anche se il 70% dell’olio è circoscritto a circa 15 cultivar principali, mentre il restante 30% da circa 30 cultivar minori. Inoltre abbiamo 40 marchi di riconoscimento Ue: Dop/Igp/Biologico. L’attuale modello di riferimento di oliveto è rappresentato da impianti intensivi a bassa densità fino a 250 alberi/ha, con alberi di grandi dimensioni dalla chioma superiore a 100 mc. Su quali oliveti puntare per rilanciare l’olivicoltura italiana? Vie d’innovazione possibili che sta sperimentando da tempo in Sicilia puntano sull’alta densità (400/700 piante/ha, con altezza di 3,5 m e architettura della chioma 2D, cioè a parallelepipedo) e sull’altissima densità (700/1000 alberi/ha, con altezza di 3 m, architettura della chioma 2D) e sulla raccolta in continuo con macchine scavallatrici di nuova generazione che agiscono per bacchiatura/flagellazione della chioma su piante in 2D. Il punto è che all’aumentare della densità di piantagione si riduce il numero di cultivar adatte. Da varie sperimentazioni condotte in Sicilia, come illustrato da Caruso nel suo intervento, è emerso che la cultivar Calatina, una varietà minore di Caltagirone, è quella su cui puntare per impianti intensivi di tali generi nel territorio siciliano. Il prof. Caruso ha concluso con una slide sugli oliveti del futuro: dovranno essere basati su «cultivar deboli, a fruttificazione precoce, altamente produttive, con rami flessibili, procombenti» e dovranno essere gestiti «in sistemi di impianto intensivi a media/alta/altissima densità, pedonali e possibilmente a 2 dimensioni» (parallelepipedi).
La relazione del perito agrario Alessandro Tincani, “Prospettive future: la valorizzazione degli impianti esistenti”, ha messo in discussione l’idea che la realizzazione di impianti ad alta densità sia la strada da privilegiare per il rilancio dell’olivicoltura italiana. A suo parere «i nostri territori non sono facilmente adattabili a certi impianti» e gli oliveti ad alta densità presentano diverse criticità: il numero limitato di varietà adattabili, la riduzione della biodiversità, la maggiore sensibilità ai ristagni idrici e alle gelate primaverili, i più elevati fabbisogni idrici e la maggiore suscettibilità ad alcune patologie (ad esempio la formazione di rogne), oltre alla sottrazione di terreni agricoli destinati ad altre coltivazioni. Tincani ha tra l’altro affermato che in Spagna solo l’1% dei terreni olivicoli hanno impianti da 2.000 e più piante/ha e solo il 4% superano le 1.000 piante/ha, quindi è ben lungi dal vero che lì prevalga l’alta densità. Per Tincani è dunque essenziale valorizzare gli impianti esistenti sia attraverso il recupero degli oliveti abbandonati sia attraverso una più corretta gestione agronomica che preveda: razionale potatura a intervalli regolari, corretta gestione del suolo, tecniche di microirrigazione localizzata e la meccanizzazione della raccolta. Per lui l’olivicoltura di domani si baserà su una coesistenza ed equilibrio fra alta densità e impianti classici.
Infine, dopo la relazione di Famiani già richiamata, è intervenuto in remoto, il perito agrario Vincenzo Nisio, sul tema “Esperienze su nuovi impianti e valorizzazione dei vecchi impianti olivicoli – Campania e non solo”. Nisio, dopo aver riferito la curiosità che la Puglia ha un patrimonio di circa 60 milioni di olivi cioè uno per ogni cittadino italiano, ha riassunto in queste cifre l’olivicoltura italiana: l’olivo è presente in 18 regioni d’Italia per un totale di 250 milioni di piante su una superficie di 1 milione di ettari. La produzione media di olio di oliva negli ultimi anni è stata di circa 300 mila tonnellate all’anno, con un export pari a 200 mila tonnellate e un consumo di 800 mila tonnellate. A caratterizzare la nostra olivicoltura, ha aggiunto, è la «presenza di impianti tradizionali, con elevata età delle piante, coltivazione prevalentemente in asciutto, scarsa meccanizzazione della raccolta», e quindi «costi di gestione elevati» e «impianti non più sostenibili economicamente». Come rilanciare la nostra olivicoltura? Innovazione del sistema produttivo, qualità del prodotto, promozione e comunicazione al consumatore, dice Nisio, che richiama le seguenti necessità agronomiche: «cultivar con breve periodo improduttivo, elevata e costante produttività, resistenza alle principali fitopatie, meccanizzazione integrale della raccolta, buone caratteristiche qualitative dei prodotti». Riguardo alle prospettive dell’impianto super intensivo, ha riferito un esempio di impianto intensivo di 3 ettari nella zona di Caserta con cultivar spagnole da 2 mila euro a ettaro di costo di produzione e 1,5 euro al kg di olio. Tuttavia la qualità non è eccelsa e queste varietà straniere potrebbero portare alla diminuzione della biodiversità italiana. Per Nisio in Italia dobbiamo puntare all’eccellenza. Abbiamo un patrimonio genetico di oltre 500 cultivar di olivo, dalle quali si potrebbero ricavare potenzialmente 500 extravergini diversi certificati. «Abbiamo la necessità di accrescere il valore aggiunto dei prodotti oleari di eccellenza che produciamo in Italia», dice Nisio, che conclude indicando comunque la possibile strada di «procedere a un processo di intensificazione dell’olivicoltura (intensivo) soprattutto nei distretti olivicoli che ricadono in aree fertili e irrigue e dove la giacitura permette la raccolta meccanizzata».
Lorenzo Sandiford
- Dettagli
- Scritto da Andrea Vitali
In primo piano al Memorial Vannucci 2022 a Pistoia, sia nell’intervento di Emanuele Sacerdote che nell’intervista di Luca Telese ad Albiera Antinori, il tema del buon ricambio generazionale nelle imprese familiari (agricole e non solo). Sacerdote: il rapporto fra senior e junior da top-down a top-to-top. Antinori sulla presenza simultanea di 3 generazioni in azienda, sulla scelta del trust, sulla possibilità di accogliere in azienda le differenti vocazioni individuali e sui percorsi di carriera pianificati coi consulenti.
Il tema sempreverde del buon passaggio di testimone da padri a figli in seno alle imprese familiari, agricole e non solo, in evidenza all’ultimo Memorial Vannucci, tenutosi al Pistoia Nursery Campus sabato scorso. È stato il filo rosso dell’intervista di Luca Telese ad Albiera Antinori, presidente di Marchesi Antinori, impresa leader del settore vitivinicolo, ma è emerso con forza anche nella relazione introduttiva dello scrittore e imprenditore Emanuele Sacerdote del 9° Forum “Grandi imprese familiari italiane”, su cui era centrata la prima parte del Memorial Vannucci. Alla quale sono intervenuti, sempre intervistati da Telese, due imprenditori che hanno saputo fare innovazione quali Enrico Loccioni e Gianfausto Ferrari.
Ma il tema è in parte affiorato anche nel saluto iniziale del “padrone di casa” Vannino Vannucci, titolare della principale azienda del Distretto vivaistico ornamentale di Pistoia. Il quale ha ricordato che dai suoi genitori Franca e Moreno Vannucci, che insieme al nonno Vannino hanno dato vita alla Vannucci Piante e ai quali è intitolato il Memorial, «abbiamo ereditato molto» io e mia sorella Monica. «Abbiamo ereditato un’azienda sana e solida – ha proseguito Vannino Vannucci - ma soprattutto valori che quotidianamente cerchiamo di estendere a tutti i nostri collaboratori. Su questi valori di “famiglia”, onestà, umiltà e sincerità, abbiamo sempre basato le nostre scelte e fino ad ora non ce ne siamo mai pentiti». E ciò senza rinunciare ad allargare lo sguardo a una dimensione che va oltre i confini familiari e abbracciando la dimensione della “comunità aziendale” olivettiana, che «significa partecipare ad un percorso di crescita, dove sono coinvolti i dipendenti, i collaboratori, i gruppi di lavoro, i fornitori ed anche le rispettive famiglie» e a cui «sono chiamate a partecipare anche le istituzioni, le associazioni e le organizzazioni di vario tipo».
Ma che cosa ha detto Emanuele Sacerdote, fondatore della boutique di consulenza strategica Soulside, sul ricambio generazionale nel suo discorso dedicato ai concetti di «family business e futuro»? Il punto chiave per Sacerdote, che è stato invitato al Forum anche in quanto autore di un suo libro proprio sui passaggi generazionali intitolato Il futuro erede – conversazione sulla continuità dell’azienda familiare (Il Sole 24 Ore 2022), è stato ben espresso parlando della questione fondamentale delle «prossime generazioni». Per Sacerdote deve cambiare «il rapporto che c’è fra i senior e i junior» nelle aziende familiari. «Oggi questo rapporto – ha detto – è un rapporto top-down: i senior dicono ai junior più o meno quello che devono fare. In futuro ci dovrà essere un rapporto più livellato, un rapporto di top-to-top. E questo sostanzialmente appagherà quello che è il cambiamento inevitabile di un passaggio generazionale, perché, sembra banale da dire, se non c’è un passaggio generazionale l’azienda non continua. E quindi nella logica della capacità dell’azienda italiana di essere molto longeva questo sarà un fattore molto importante».
Di passaggi generazionali e longevità se ne intende la famiglia Antinori, la cui storia nel settore del vino risale al 1385, ha ricordato Luca Telese, ma quella familiare risale «ad ancora un po’ prima, al 1180», come puntualizzato da Albiera Antinori, ospite d’onore e vincitrice del premio principale del Memorial Vannucci 2022. «Io rappresento la 26esima generazione – ha aggiunto la presidente di Marchesi Antinori – e oggi abbiamo tre generazioni che lavorano in azienda: quella di mio padre, che ha 84 anni, quella nostra, siamo tre sorelle, e quella dei ragazzi che stanno piano piano entrando in azienda ora. È molto bella questa cosa delle tre generazioni insieme, perché i nonni passano ai nipoti qualcosa che i genitori fanno più fatica a trasmettere. Sono dinamiche interessanti. E poi c’è tanto da fare per cui è bene che incomincino a correre in giro per il mondo ad aiutare quelli che incominciano ad essere un pochino più stanchi».
Per Telese la famiglia Antinori «è l’archetipo del modo in cui una famiglia si può rinnovare ed evitare quel difetto che hanno spesso alcune famiglie, che perdono la scintilla». Un primo aspetto, ha sottolineato il giornalista, è questo appena descritto della «simultaneità» e «trasmissione della memoria per via diretta». Un altro è «la continua volontà di fare il salto evolutivo». E da questo punto di vista un’altra data importante è il 1971, quando si incominciò a produrre un vino diverso: «un vino adatto al gusto del tempo». Il riferimento è al Tignanello, che è stato il primo Sangiovese ad essere affinato in barriques, il primo vino rosso moderno assemblato con varietà non tradizionali (quali il Cabernet), e tra i primi vini rossi nel Chianti Classico a non usare uve bianche.
Ma, tornando alla trasmissione familiare dei valori aziendali, Albiera Antinori ha risposto a Telese che la prima volta che ha percepito qualcosa del genere è stato a 6 anni. «Le parole famiglia e azienda – ha spiegato – sono molto mescolate per me. I valori ti vengono trasmessi fin da piccolo e senza pensare al fatto che poi il figlio andrà in azienda. Sono dei fondamenti che fanno parte dell’educazione che poi si trasformano in temi più aziendali». E quale è il primo di questi insegnamenti? «Che tu riceverai questa terra – ha risposto – ma che non sarà mai tua, che dovrai occupartene, migliorarla e soprattutto passarla alla generazione successiva, che nel frattempo deve essere formata».
Ma, ha chiesto Telese, non c’è il rischio di essere schiacciati da questi padri forti, potenti capitani d’industria? Avere un uomo di 84 anni che ancora oggi tutti i giorni va in azienda e comanda come si fa? «Assolutamente sì – dice Albiera Antinori – ci rimette in riga tutti i giorni guardando con attenzione quello che succede… Come si fa? Sono delle dinamiche che si devono digerire. Noi siamo tre femmine, quindi abbiamo avuto il vantaggio di non avere un prescelto per principio, abbiamo avuto la possibilità come donne di metterci in gioco, lavorare e portare il nostro contributo. Ogni generazione porta il suo contributo, che non può e non deve essere uguale a quella precedente. Ma bisogna avere chiaro dove l’azienda deve andare a lungo termine, l’obiettivo deve essere chiaro e tutti devono lavorare in quella direzione».
Ma, ha spiegato Telese, non c’è solo trasmissione ereditaria di conoscenze e valori, perché la famiglia Antinori a un certo punto ha deciso di creare una struttura in grado di garantire la prosecuzione della missione, se fosse necessario, anche contro i desideri della famiglia: vale a dire un trust che stabilisce la missione per i prossimi anni. «Questo – ha chiosato Telese - è stato davvero un salto di modernità incredibile. Come ci siete arrivati?». Nel 2012, ha risposto Albiera Antinori, in contemporanea con l’inaugurazione della cantina innovativa del Bargino, che apriva le porte ai visitatori di tutto il mondo con una nuova formula, «ci siamo posti il problema, o meglio il ragionamento, di come fare per essere sicuri che la direzione, la solidità e tutti quei valori non potessero essere messi in discussione. Abbiamo scelto, dopo lunghe riflessioni, la formula del trust, un trust a 90 anni appunto. Una scelta forte, perché per una famiglia di lunga tradizione, latina, lo spossessarsi completamente… è stata presa in un momento in cui non avevamo bisogno di prenderla e più facile perché eravamo noi tre e i ragazzi erano giovani e quindi sono cresciuti sapendo che così era. Ma la cosa che ci ha permesso di prendere questa decisione è il senso di stewardship che si diceva prima. Siamo cresciuti sapendo che così doveva essere: prendo, miglioro e passo, e il trust ha anche questa funzione».
Altro aspetto delicato posto da Telese è quello della libertà dei figli, che magari desiderano fare qualche altra cosa. «Le aziende familiari – ha detto Albiera Antinori – se impostate in un certo modo hanno la possibilità di prendere le passioni e le caratteristiche particolari dei membri che ci lavorano dentro e metterle ad uso dell’azienda. Quindi, faccio un esempio, a me è sempre piaciuta l’architettura e l’arte contemporanea e negli ultimi 15 anni abbiamo costruito mi sembra 11 o 12 cantine, alcune molto innovative» e sostenibili.
E con l’ultima generazione, i giovani di 20, 30 anni, così diversi da voi e appartenenti all’epoca digitale, come viene gestito il rapporto? «Hanno tra i 25 e 29 anni – ha spiegato la presidente di Marchesi Antinori -. Sull’inserimento dei giovani in azienda ci sono molte teorie e ogni famiglia deve trovare la sua strada. Sono andati a studiare fuori, hanno lavorato fuori. Noi abbiamo come regola che almeno 2 anni o 3 devono poter lavorare fuori in aziende che non sono legate alla nostra famiglia. Quindi hanno fatto la loro esperienza». Una figlia si occupa di viticoltura ed enologia, un altro figlio di marketing in un’azienda familiare in Cile, e il figlio di una sorella ha studiato a Milano e ora si occupa della parte logistica. «Piano piano entrano – ha aggiunto -. Abbiamo fatto tutto uno studio, un percorso con loro, con dei consulenti ovviamente, di condivisione sulle strade da percorrere. Loro sono una generazione che vogliono avere chiaro dove si va, non è più: entro e boh, si vede che succede. Adesso ognuno sa quale è il suo percorso. Poi, saranno in grado di farlo? Hanno dei percorsi di valutazione e si prova. La formula perfetta non c’è mai. Però ci sono delle buone chance di avere un buon team di ragazzi entusiasti, perché è fantastico vedere l’energia e l’approccio al mondo basato anche sul digitale. Sono veloci, sono sensibili, sono giramondo. Quindi è bello ed entusiasmante. Ed è bello che ci sia anche mio padre, come generazione di esperienza, di tranquillità e solidità, che dà le dritte nei momenti difficili».
L’intervista di Telese si è conclusa con la seguente domanda finale: l’impresa familiare, di tradizione artigianale, ha una possibilità di competere nel mondo moderno, diciamo nei prossimi 100 anni? «Io penso di sì – ha risposto Albiera Antinori - perché l’artigianalità, la coltivazione della terra, sono valori fondamentali… il mondo è globale ma nello stesso tempo è sempre più attento alle nicchie e al locale. Quindi le chance ci sono e valori come questi, soprattutto nella nostra regione ma in tutta Italia, sono degli asset che non sono nemmeno misurabili. Quindi credo che abbiamo un futuro roseo a patto che ci organizziamo, studiamo, innoviamo e continuiamo a rimanere solidi sulla strada della qualità».
Lorenzo Sandiford
- Dettagli
- Scritto da Andrea Vitali
In evidenza al doppio convegno di Assoverde, Confagricoltura, Società Toscana di Orticultura e Anci Toscana del 7 luglio a Firenze percorsi di certificazione come il nuovo standard di “Gestione sostenibile del verde urbano” e i “Parchi della salute”, ma anche proposte quali il ricorso dei Comuni a manager del verde (prof. Ferrini). L’aggiornamento della vicepresidente della Commissione Agricoltura del Senato Biti sull’iter del ddl Liuni e la fotografia dello stato del vivaismo di Magazzini (Confagricoltura). Il bilancio della giornata di Alberto Giuntoli e di Rosi Sgaravatti.
I Comuni dovrebbero dotarsi di manager del verde. È la proposta avanzata da Francesco Ferrini, docente di Arboricoltura dell’Università di Firenze e presidente del Distretto vivaistico di Pistoia, al termine della giornata di confronto interamente dedicata al verde, e soprattutto al verde pubblico urbano e ai suoi benefici per la salute, organizzata il 7 luglio a Firenze presso Villa Bardini da Assoverde, Confagricoltura, Società Toscana di Orticultura e ANCI (Associazione Nazionale Comuni Italiani) Toscana (vedi). Un’idea lanciata da Ferrini in risposta all’appello finale ai relatori di fare qualche proposta concreta del presidente della Società Toscana di Orticultura Alberto Giuntoli, che moderava la sessione pomeridiana sulla “Gestione sostenibile del verde pubblico”. E che Ferrini ha ribadito e precisato a Floraviva, al termine dell’incontro in cui era intervenuto sia la mattina spiegando in che senso le spese per il verde siano investimenti e non costi, sia il pomeriggio con una relazione sui benefici del verde (vedi la sua analisi sullo stesso tema su Floraviva), con queste parole: «il manager non è necessariamente il responsabile, ma uno che dà le idee, dà gli indirizzi, dà le priorità e che coordina». Serve una figura simile, ha spiegato Ferrini, perché «la ricerca ci dà delle indicazioni precise, che vanno però messe a sistema. Cioè è inutile fare interventi spot uno qua e uno là e non proseguirli, come spesso succede, perché purtroppo non porta i risultati sperati. I risultati si possono ottenere se si mette tutto il verde a sistema: in quel momento si possono vedere realmente i cambiamenti».
Ma tutta la giornata è stata ricca di spunti, a partire dalla prima sessione, a cura di Assoverde e Confagricoltura, che era focalizzata sul tema “La salute e il verde – Il verde e la salute” e sulla presentazione del Libro bianco del verde, la cui prossima edizione, in preparazione, sarà dedicata al progetto “Parchi della salute”. Una sessione a cui sono intervenuti fra gli altri, l’assessore regionale all’agroalimentare Stefania Saccardi (vedi), l’assessore comunale di Firenze Cecilia Del Re, che ha avuto la delega sul verde urbano fino a qualche giorno fa e ha spinto molto l’acceleratore sull’inverdimento di Firenze (vedi), e la senatrice fiorentina Caterina Biti, vicepresidente della 9^ Commissione permanente (Agricoltura e produzione agroalimentare). A quest’ultima, che nel suo intervento ha sottolineato il cambiamento di mentalità avvenuto a Firenze negli ultimi anni riguardo al verde, adesso «visto come un investimento per il futuro», Floraviva ha chiesto a che punto è l’iter del ddl Liuni di riforma del settore florovivaistico (vedi). «La Commissione ha lavorato molto in fase di istruttoria – ha risposto – con un buon clima, come accade su tanti provvedimenti in cui riusciamo davvero a lavorare al di là delle posizioni politiche e partitiche al servizio dei temi. Il florovivaismo è un ambito importante per il nostro Paese e la nostra Regione è un’eccellenza in questo. Gli emendamenti sono stati presentati e aspettiamo il parere del Governo, per poi riprendere…». Quindi dipende dal Governo? «In realtà dipende anche dal relatore e dalla Commissione – ha replicato - perché è ovvio che i pareri del Governo sono importanti per avere cognizione di causa su cosa è più fattibile e su cosa è meno fattibile. Dopo di che l’indirizzo politico è del Parlamento e quindi sta anche al relatore insieme alla Commissione, perché il senatore La Pietra sicuramente ha queste capacità di collaborazione, di portare a casa un risultato che tenga tutto insieme». Quando arriverà il responso del Governo? «Continuiamo a sollecitare, perché siamo pronti e vogliamo dare entro la fine della legislatura una risposta a questo settore così importante».
Al centro della sessione della mattina è stato comunque il progetto Libro bianco del verde, che, come sottolineato da Confagricoltura, è nato per promuovere un cambiamento nei modi di intervenire nel settore del verde, rendendo la natura protagonista delle città e creando una rete tra tutti gli operatori (pubblici e privati) per condividere obiettivi, individuare priorità e criticità, trovare soluzioni: una rete che costituisca una piattaforma permanente a supporto delle amministrazioni, per ottimizzare le risorse, indirizzare la programmazione e gli investimenti. Ma rappresenta anche un’occasione per accrescere la consapevolezza del valore che parchi, giardini, aree verdi, pubbliche e private, hanno per la qualità della vita e il benessere psico-fisico dei cittadini. E investire nel verde porterebbe indubbi vantaggi all’economia e all’occupazione del Paese, permettendo di rilanciare un settore come quello del florovivaismo, in cui l’Italia, e in particolare la Toscana, è assolutamente protagonista e ha tutte le caratteristiche per giocare un ruolo da leader, se adeguatamente sostenuta. «Sono convinto del ruolo da protagonisti che devono avere boschi, foreste e aree verdi nel nostro futuro – ha commentato Marco Neri, presidente di Confagricoltura Toscana –. Sono orgoglioso perché penso che siamo riusciti a dare delle risposte esaurienti alle tante attese che oggi ruotano attorno ai temi della sostenibilità, a partire dal ruolo strategico del verde urbano, dell’abbattimento della CO2, degli effetti che il verde pubblico e privato hanno sul benessere e sulla salute di tutti noi. Sosteniamo quindi con convinzione l’importante messaggio che scaturisce dal Libro bianco: assegnare sempre più attenzione al settore del verde, diventare pionieri del cambiamento».
Scendendo più nel cuore tecnico del lavoro dietro al Libro bianco di Assoverde, Davide Troncon, responsabile Schemi forestali e Biodiversità dell’organismo di certificazione CSQA, ha parlato di quanto si sta facendo sul fronte della certificazione del verde urbano: dal nuovo standard PEFCtm ITA 1001-6 “Gestione sostenibile del verde urbano”, che è nella fase finale della consultazione pubblica sul sito pefc.it, al progetto avviato sui “Parchi della salute”, che sarà anche il prossimo focus del Libro bianco, dopo il primo dedicato ai pini dell’anno scorso (vedi). Come ci ha spiegato a latere del convegno, al nuovo standard sulla gestione sostenibile del verde urbano «manca solo l’accettazione da parte del PFC International, perché questo è un progetto che ha portato avanti PFC Italia, che ha coinvolto varie istituzioni che sono qui presenti e il prof. Francesco Ferrini. Dopo un confronto che è durato circa 2 anni è venuto fuori questo documento [Criteri e indicatori per la certificazione individuale e di gruppo di Gestione Sostenibile del Verde Urbano], che adesso è in consultazione pubblica per cui chiunque può fare commenti» e richieste di correzioni (per ancora pochi giorni). Si tratta di uno standard focalizzato sulla componente arborea degli spazi verdi urbani che è basato su «6 criteri che sono linee guida molto generali, che poi vengono articolate in vari indicatori», ha spiegato Troncon. Ad esempio, il criterio 2 “Mantenimento della salute e vitalità degli ecosistemi” prevede 2.1.a il “Piano di monitoraggio”, 2.2.a la “Programmazione degli interventi di potatura”, 2.2.b la “Pratica degli interventi di potatura” e così via per tantissimi indicatori, che poi gli organismi certificatori potranno controllare. Lo standard “Parchi della salute”, invece, è ancora in fase di costruzione: «stiamo iniziando adesso a raccogliere i requisiti dei vari stakeholder», ci ha riferito Troncon. L’obiettivo è «andare a evidenziare la connessione fra il verde e la salute» con una serie di indicatori misurabili e alla fine avremo uno standard che definirà come si deve fare un parco della salute. Per cui ad esempio avremo che «la casa di cura che ha un terreno agricolo vicino o che magari ha già un parco ma lo vuole modificare, e lo vuole fare secondo determinati criteri che sono quelli del parco della salute, può prendere questo schema, studiarselo e metterlo in pratica, e poi chiamare un ente terzo che lo certifica».
Fra i molti interventi citiamo qui quello in collegamento web del presidente del Comitato per lo Sviluppo del Verde Pubblico e vice capo gabinetto del Ministero della Transizione Ecologica Raffaello Sestini, che ha annunciato un sondaggio fra gli operatori per individuare le principali criticità del settore verde per impostare meglio nuove strategie, e quello di Paolo Bellocci, responsabile della delegazione toscana dell’Associazione Italiana Direttori e Tecnici Pubblici Giardini (40 membri nella nostra regione), che ha sottolineato che in media l’incidenza percentuale delle spese per il verde nei Comuni italiani è solo dello 0,8% dei bilanci comunali e che va fatta salire ad almeno il 2% se vogliamo dare gambe ai piani di forestazione incentivati dal PNRR.
Inoltre vanno richiamati i due interventi della voce dei vivaisti a questo appuntamento. Vale a dire Luca Magazzini, intervenuto in questa occasione nei panni di presidente della Federazione di prodotto “Florovivaismo” di Confagricoltura Toscana e vice presidente della stessa a livello nazionale. Nella relazione della mattina, Magazzini ha sostenuto la necessità di mettere le aziende florovivaistiche nelle condizioni di dare una risposta efficace alla domanda di verde implicita in questi piani di inverdimento delle città incentivati dal PNRR. E questo ha a che fare, ad esempio, con l’aiutarle a restare competitive nonostante «il 60% delle molecole in meno a disposizione per trattare i patogeni, che sono aumentati» e nonostante i molti costi che hanno dovuto sostenere per investimenti nel risparmio idrico. Per produrre un albero ci vogliono almeno 5 anni e noi al momento «siamo in grado di garantire il consumo medio privato europeo», per dare una risposta alla nuova domanda di piante legata al PNRR c’è bisogno di forti investimenti da parte delle aziende agricole, a cominciare da quelli in personale qualificato, che scarseggia. Quindi ci vuole un sostegno a tali investimenti. Mentre nel secondo intervento, il pomeriggio, Luca Magazzini ha fra le altre cose descritto l’ultima fase di mercato per il settore vivaistico, che ha siglato di recente il rinnovo del contratto nazionale dei lavoratori del comparto con un aumento medio dei salari del 4,5% e poco prima aveva siglato quello provinciale (e a Pistoia «c’è il costo orario della manodopera più alto d’Italia» in questo comparto, ha osservato Magazzini). Se a questi aumenti aggiungiamo l’incremento dei costi energetici e «l’esplosione dei costi del materiale per la cura delle piante» (con ad esempio i tutori aumentati da «3/4 mila euro a 18 mila euro a container» e difficili da reperire e a prezzi sempre mutevoli) e le difficoltà a trovare trasportatori ecc., è chiaro che l’attività vivaistica sta attraversando una fase complessa. Anche perché, d’altro canto, «l’inflazione rappresenterà un freno per il consumo privato di piante e già ora questo si percepisce nei rapporti con i garden center a livello europeo». E però è vero che il PNRR spingerà repentinamente la domanda di piante delle amministrazioni pubbliche, per cui dovremmo aumentare le produzioni di piante con nuovi investimenti. Insomma il vivaismo si trova «in una condizione difficile», a un punto di svolta in cui è facile sbagliare. Pertanto sarebbe molto positiva una «sintonia» fra tutti gli attori della filiera del verde.
Tema, quest’ultimo, toccato anche dal moderatore della sessione pomeridiana dell’incontro, il presidente della Società Toscana di Orticultura Alberto Giuntoli, che in uno dei suoi interventi durante la giornata aveva richiamato un esempio interessante di forestazione urbana dall’impatto molto positivo: il parco del termovalorizzatore di Parma, capace di abbattere il doppio delle polveri emesse dal termovalorizzatore. Giuntoli, sentito da Floraviva dopo la fine dell’incontro pomeridiano per un bilancio sugli aspetti più meritevoli d'attenzione venuti fuori, ha dichiarato: «emerge sicuramente che è necessario un confronto. Un confronto fra le aziende che producono, le aziende che realizzano, i professionisti, ma anche gli enti, perché sono poi gli enti i regolatori di questo mercato, sono gli enti che poi fanno i prezzi, che decidono le regole del gioco. Quindi è necessaria la collaborazione fra tutti per arrivare a un verde di qualità, che è l’obiettivo condiviso da tutti e che renderà, speriamo da subito, le nostre città più vivibili, migliori per noi e per le future generazioni. Credo che questo tipo di incontri siano proficui per questo, cioè se da giornate come queste nascono dei confronti reali, dei tavoli di supporto, se nascono delle collaborazioni, delle convenzioni fra associazioni, enti ecc.».
Ma per il bilancio conclusivo di tutta la giornata, Floraviva si è rivolta a Rosi Sgaravatti, presidente di Assoverde. «È stato un convegno interessante, un po’ lungo – ha commentato -. Ce ne sarebbero voluti due per riuscire a sviscerare tutte le problematiche del settore, però è stato molto interessante perché finalmente abbiamo messo dei punti precisi sulla cooperazione, sul miglioramento di tutte le tecniche florovivaistiche, soprattutto sul PNRR e quello che si dovrà fare. Per cui è stata un’iniziativa secondo me positiva: bisogna riflettere adesso e cercare di portare avanti tutti insieme, in modo interdisciplinare, queste nostre istanze e davvero essere uniti per portarle davanti a chi deve decidere». E riguardo alla necessità di trovare spazi per aumentare le produzioni vivaistiche? «In tantissime aree dell’Italia ci sono luoghi abbandonati e di conseguenza aree che possono essere recuperate alla coltivazione, in modo tale che possano inserirsi nella produzione». Ma si riferisce solo al vivaismo forestale o anche a quello cosiddetto ornamentale? «Io direi anche quello ornamentale. Dalla forestale possono venire i semi e le piantine per poterlo fare, scegliendo le specie giuste per il verde urbano e questo è molto importante. Ma poi queste aree abbandonate devono essere coltivate perché questa è la virtù dell’uomo: coltivare vuol dire abitare».
Lorenzo Sandiford