GILLES BARBIER: LA FORESTA DELLE POSSIBILITA’
- Andrea Vitali

Per chi cerca nella natura una metafora dell’arte, l’opera di Gilles Barbier si presenta come una foresta fitta, rigogliosa, inclassificabile. Nato nel 1965 nel remoto Vanuatu e attivo da decenni a Marsiglia, Barbier costruisce un mondo visivo e teorico che sfugge a ogni sistema chiuso, preferendo all’ordine la proliferazione, alla coerenza l’instabilità, al significato la finzione.
Finzione, sì: così l’artista definisce il suo lavoro fin dall’inizio, spiazzando chi cerca nelle opere un’intelligenza lineare, una morale, una lezione. Barbier non insegna, semmai disorienta. Copia le pagine del Petit Larousse illustré del 1966 – parola per parola, immagine per immagine – in un gesto ossessivo che dura da oltre trent’anni: un’azione che è insieme rigore e delirio, studio e deriva, scavo linguistico e atto di resistenza contro l’oblio. Il suo dizionario, come una pianta rizomatica, cresce ininterrottamente, e attraversa tutto il suo lavoro come un rumore di fondo costante.
E nel corpo stesso delle sue opere questa proliferazione prende forma: si incontrano supereroi senescenti, mondi “corretti”, paesaggi perduti, laboratori pieni di oggetti assurdi – tra banane, vaselina, bastoni da staffetta, formaggi, cosmetici e vermi – che più che simboli, sono strumenti di una riflessione visiva sull’accumulo, sulla trasformazione e sul consumo. Barbier mette in scena un universo dove ogni oggetto è al tempo stesso reale e metaforico, parte di un flusso senza gerarchie, dove la materia vegetale convive con la scoria tecnologica, e il desiderio con la decomposizione.
In questa giungla iconografica si muovono i suoi clones-pions – piccoli doppi dell’artista, infiniti e buffi, infantili e tragici – che ricordano le derive identitarie del romanzo L’uomo dei dadi di Luke Rhinehart, in cui ogni scelta è affidata al caso. Così anche Barbier: si moltiplica, si contraddice, si nasconde in mille forme, rifiutando l’idea stessa di una soggettività fissa o coerente. Il suo clone può scivolare nel paesaggio o camuffarsi tra gli scaffali di un atelier sovraccarico. Può ridere, sparire, esplodere.
L’intero lavoro di Gilles Barbier appare allora come un ecosistema mentale, dove ogni opera è solo una tra le molte versioni potenziali di sé stessa. Una vegetazione concettuale, che ricorda al tempo stesso il caos del mondo e la sua fragilità, ma anche la possibilità di creare nuovi codici, nuovi spazi di libertà e resistenza.
In tempi che chiedono risposte semplici, Barbier costruisce un’opera-foresta: luogo dell’eccesso, dell’ambiguità, dell’apertura. Un’arte verde, non perché rappresenti la natura, ma perché ne assume il carattere vitale e selvatico, indomabile. Un invito a perdersi, a sbagliare sentiero, a vedere oltre.
AnneClaire Budin