Casamonti: città da rinaturalizzare, i vivai uno dei fronti produttivi più avanzati

Per l’architetto fiorentino, premiato al Memorial Vannucci Piante 2020, Pistoia è di fronte a un’occasione unica: qui ci sono le fabbriche che producono ossigeno, le piante e il verde, e ora dobbiamo rinaturalizzare le città per contrastare l’avanzare dell’anidride carbonica e delle emissioni inquinanti. La committenza pubblica inizia a capire e svegliarsi, ma a «una velocità che non è paragonabile all’emergenza» e «alla velocità con cui si sciolgono i ghiacci», mentre gli urbanisti sono dal punto di vista scientifico «prontissimi da decenni» alla svolta. L’esempio delle sue cantine per Antinori a Bargino come costruzione dove «artificio e natura si compenetrano». E ai produttori di piante dice: «se io fossi un vivaista, spenderei parte dell’energia per costruire un cambio culturale che permetta a ciò che produco di essere utilizzato».


Uno dei premiati al Memorial Vannucci Piante 2020, sabato scorso al Nursery Campus di Pistoia, era Marco Casamonti, affermatissimo architetto fiorentino con cattedra di professore ordinario di Progettazione architettonica urbana e del paesaggio all’Università di Genova. Nome ultimamente salito alla ribalta, insieme al collega e amico Massimiliano Fuksas, a cui si deve la prima idea, per la lettera inviata lo scorso aprile, verso la fine della fase di lockdown più dura, al presidente della repubblica Sergio Mattarella: sulla necessità di ripensare il patrimonio abitativo italiano e alcune linee guida su come farlo; vale a dire, in estrema sintesi, case con qualche metro quadrato in più, spazi per lo smart working, collegamenti alle strutture sanitarie per la telemedicina, luoghi per la consegna merci di Amazon ecc., insomma case in cui poter abitare e non solo dormire. Argomenti toccati da Casamonti anche sabato scorso nella conversazione con Luca Telese davanti agli ospiti del Memorial Vannucci, subito dopo Cottarelli.
A un certo punto Telese gli ha detto: «il verde fatica a entrare nella testa di chi fa le case e di chi le compra, come se fosse solo un ornamento secondario», come mai accade questo, almeno a livello di massa? «Il limite è culturale – ha risposto Casamonti - siamo abituati a dividere il mondo in campagna e città. Anche se non è più così, perché ormai sono fuse. Basti pensare alla via emiliana da Bologna a Milano». «Dobbiamo portare la campagna nelle città – ha aggiunto – e pensare alle città come luoghi del verde. Io sono geloso di una città come Pistoia, perché qui ci sono le fabbriche che producono ossigeno, producono piante e verde, e si trova in una occasione storica unica. Qui c’è la manifattura più avanzata del mondo».



Floraviva ha intervistato l’architetto Casamonti, al termine dell’incontro, ripartendo proprio da queste affermazioni e cercando di approfondirle anche dal punto di vista degli operatori della filiera del verde.
Lei ha parlato di occasione storica per Pistoia, perché mai come in questo momento c’è bisogno di verde e i vivai di Pistoia lo producono, ecco può spiegare meglio in che senso ritiene il vivaismo la “manifattura del futuro”.
«Ho detto e ritengo che Pistoia è in questo momento la città con la produzione più avanzata al mondo, perché se la Silicon Valley è il luogo del futuro e della tecnologia digitale, beh Pistoia è il luogo della produzione dell’ossigeno, delle piante, del verde e non ha niente da invidiare alla Silicon Valley. Ci sono in questo momento infatti due elementi trainanti nell’economia del mondo: uno è la digitalizzazione del nostro sistema di vita, l’altro è che dobbiamo rinaturalizzare ciò che negli ultimi 100 anni abbiamo distrutto e quindi dobbiamo tornare a produrre ossigeno e a contrastare l’anidride carbonica che avanza e le emissioni inquinanti. E questo lo possiamo fare con un’industria avanzata che lavora nel verde e produce piante. Pistoia si trova storicamente in questa fase all’apice di una produzione di interesse mondiale e se saprà cogliere questa opportunità coinvolgendo i migliori architetti, i politici più attenti, gli imprenditori più avanzati…»
… noto il riferimento alla politica…
«…perché non è che dipende tutto dagli urbanisti e dagli architetti. Gli urbanisti e gli architetti hanno bisogno di committenti. Possono dare idee, però alla fine ci vuole una committenza che culturalmente capisce quanto la green economy non sia una parola vuota, non è soltanto mettere pannelli fotovoltaici sui tetti per produrre energia, ma una nuova visione di vita, una nuova dimensione nella quale artificio e natura si compenetrano a vicenda…»
… ecco a questo proposito, secondo lei, iniziando dai committenti, quindi amministrazioni pubbliche ecc., lo stanno capendo? A me pare che qualcosa si stia muovendo, ma vorrei sentire la sua opinione.
«Qualcosa si sta muovendo, ma con una velocità che non è paragonabile all’emergenza. Se noi pensiamo alla velocità con cui si sciolgono i ghiacci e con cui subiamo gli effetti dei cambiamenti climatici, ecco ci vorrebbe una velocità di azione… e io dico della politica, perché l’imprenditoria privata può fare la sua parte, ma la farà solo se c’è un’azione collettiva e quindi pubblica, delle amministrazioni e dei governi, che vada nella direzione di riuscire a contrastare una tendenza alla distruzione del paesaggio e dell’ambiente. Non lo si fa smettendo di costruire, ma iniziando a costruire in un modo nuovo, entro una prospettiva nuova. Io ho avuto la fortuna di incontrare committenti straordinari, come gli Antinori per esempio. Ho potuto proporre di fare un edificio completamente integrato nella terra e che si fa mangiare dalla natura e dalle vigne…»
…la cantina al Bargino (San Casciano Val di Pesa)?
«Sì, la cantina del Bargino che ha avuto una grande fortuna. Però l’effetto più importante di questo progetto è l’effetto di emulazione e la sensibilità che ha costruito nell’opinione pubblica e anche nella politica, che si è accorta che si può fare una fabbrica, si può fare sviluppo economico, e allo stesso tempo un grande omaggio all’ambiente. Questo è il tema».



Lei però rappresenta un’eccellenza dell’architettura, ma gli architetti in generale e gli urbanisti sono pronti a questa sfida, a pensare di più al verde? Ad esempio circolano proposte come quella di anticipare i piani del verde rispetto alle edificazioni. Ecco di fronte a simili innovazioni il mondo dell’urbanistica è pronto?
«Secondo me per cultura scientifica architetti e urbanisti sono non pronti, sono prontissimi da decenni. Certo c’è ancora tanto da fare. Però si sviluppa un’offerta quando c’è una domanda. Il problema è la scarsità della domanda. Il problema è che si concepisce ancora il verde come un tema decorativo o di arredo urbano. Non si concepisce il verde come struttura integrante del nostro sistema di vita. Facciamo ancora il paragone con il digitale: dobbiamo pensare che la digitalizzazione del mondo ha cambiato i nostri usi e costumi. Ce ne rendiamo conto perché è cambiata un’epoca: non esistono più i telefoni a gettoni, esiste un apparecchio che ci portiamo dietro che ha cambiato il nostro modo di vivere. Ecco dobbiamo far sì che il verde e il rapporto fra natura e architettura cambi il nostro modo di vivere. Quando arriveremo a quel livello, potremo dire che la battaglia è vinta. Però purtroppo mentre di alcune cose non possiamo fare a meno, vedi digitalizzazione, del verde, con poca visione, si pensa di poter fare a meno. Mentre l’emergenza di oggi ci dimostra che è assolutamente impossibile farne a meno».
Ultimissima: che cosa può essere utile da parte dei vivaisti per rapportarsi a voi che progettate giardini, spazi o infrastrutture verdi?
«Posso dirlo con una battuta: non serve produrre ghiaccio per venderlo agli eschimesi, bisogna produrre ghiaccio per venderlo a chi ne ha bisogno. Direi ai vivaisti che - oltre che a piantare e fare questa operazione straordinaria di nursery, di far crescere le piante - devono veramente lavorare per un cambio culturale, collettivo e soprattutto, ripeto, di chi ha la responsabilità del governo del territorio. Quindi se io fossi un vivaista, spenderei parte dell’energia per produrre piante, parte dell’energia per costruire un cambio culturale che permetta a ciò che produco di essere utilizzato. E’ questo che deve essere fatto. Nella digitalizzazione è venuto giocoforza, da sé, è stata un’escalation virale e oggi non ne possiamo più fare a meno. Allo stesso tempo dobbiamo sensibilizzare l’opinione pubblica per farle capire che abbiamo costruito tanto su un modello veramente vecchio, quello della contrapposizione fra città e campagna e abbiamo costruito nelle campagne e ovunque. Adesso bisogna tornare a naturalizzare le città. Questo è il compito per il futuro».

Lorenzo Sandiford